Se le barriere in alta quota sono più facili da abbattere

L'associazione Baroni Rotti da anni forma piloti con disabilità. E ci dimostra che anche in cielo si può veicolare un messaggio contro la discriminazione e il pregiudizio.

Volare nel “blu dipinto di blu”, come cantava Domenico Modugno, è uno dei sogni più grandi dell’umanità fin dai tempi che furono. Gli antichi Greci incarnarono questo desiderio nel mito di Dedalo e Icaro ma prima che l’uomo potesse solcare i cieli avrebbe dovuto trascorrere moltissimo tempo. Ora l’aereo è diventato un mezzo di trasporto molto comune, che alcuni preferiscono ad altri di origine più antica ma ad andamento più lento e, statisticamente parlando, meno sicuri. Avete mai volato a bordo di un aeroplano pilotato da una persona con disabilità motoria? Lo ritenete possibile? Vi fidereste? Tranquilli, non serve che rispondiate. Se per una persona disabile viaggiare in aereo è una possibilità abbastanza utilizzata, seppure talvolta non esente da inconvenienti, vederla alla guida di un veivolo è un avvenimento a cui pochi hanno assistito e credo quasi nessuno ritenga ipotizzabile né tantomeno auspicabile.

QUELL’IDEA CONCEPITA DA UN “NORMALOIDE”

Infatti una disabilità fisica è una condizione che per senso comune si ritiene essere incompatibile con alcuni tipi di professioni e, tra queste, il pilota di aereo credo sia tra quelle considerate più fuori portata. E invece i piloti dell’associazione Baroni Rotti – la prima associazione di piloti con disabilità in Italia – hanno dimostrato che anche tale convinzione, sebbene sembri un dato di realtà evidente, se assunta come verità assoluta, non è altro che un pregiudizio e una teoria falsa. Non ci crederete, ma l’idea che anche persone con disabilità motoria potessero diventare in grado di pilotare un veivolo è stata concepita da un “normaloide”. Luciano Giannini, vulcanologo e istruttore di volo, portò in volo un ragazzo con disabilità il quale, terminata l’esperienza, piangendo gli confidò il suo dispiacere per il fatto di poter vivere quella meravigliosa avventura solo come passeggero e non anche in qualità di pilota.

LA NASCITA DEI BARONI ROTTI

Non conosco personalmente Luciano ma credo sia un po’ “matto”, come del resto lo sono tutti quelli che pensano che l’impossibile non sia scontato. Infatti, profondamente toccato da questo incontro, propose a degli amici piloti di provare ad adattare un aereo per renderlo pilotabile anche da chi non ha l’uso delle gambe o ha un uso parziale delle braccia. Gli adattamenti non sono permanenti,in questo modo uno stesso mezzo risulta accessibile sia a professionisti con disabilità che senza. Ma un progetto a favore di persone disabili non potrebbe avere successo senza essere stato condiviso con gli interessati ed è per questo che Luciano ed i suoi amici decisero di coinvolgere i soci dell’Associazione Paraplegici Aretini. Alcuni di loro frequentarono tutto l’iter di formazione e nel 1995 i primi pionieri superarono gli esami e si qualificarono piloti a tutti gli effetti. Poi nacquero i Baroni Rotti.

Tutte le barriere si rompono. Ma ci sono posti dove ce ne sono meno da rompere

Oggi esiste l’associazione e una federazione che coordina le molteplici realtà di volo nel nostro Paese. “Tutte le barriere si rompono. Ma ci sono posti dove ce ne sono meno da rompere”: questo è il motto dei Baroni. In realtà penso che non sia stato per niente facile, soprattutto per i primi aspiranti piloti, infrangere le barriere del pregiudizio e del senso comune, dimostrando tanto alle autorità competenti quanto ai loro esaminatori che a fare di una persona un buon pilota non sono le sue condizioni fisiche (fatto salvo l’ottenimento dell’idoneità medica, condizione sine qua non anche per gli aspiranti piloti senza disabilità) ma le sue competenze e che non si dovrebbe mai definire a priori una certa professione non adatta a certe “categorie” di persone senza prima aver cercato tutte le possibili soluzioni per gestire le eventuali criticità connesse all’esercizio del ruolo da parte delle stesse. A volte basterebbe solo aguzzare l’ingegno e individuare le tecnologie e gli accorgimenti adatti che consentano a tutti di volare.

NON TUTTI I SOCI SONO DISABILI DALLA NASCITA

Ma quella italiana non è ancora una società per persone disabili e a evolvere, ancor prima della tecnologia, dovrebbero essere le teorie di senso comune sulla disabilità. Infatti la si crede ancora una “sfiga” dei singoli mentre invece è il frutto dell’interazione tra caratteristiche individuali ritenute arbitrariamente fuori dalla “norma” (definita tale dal modello medico) ed il contesto sociale non adeguato ad offrire a tutti pari opportunità. Molti soci dei Baroni Rotti non sono disabili dalla nascita e immagino che per loro sia stato ancora più difficile digerire la discriminazione sociale di cui siamo spesso vittime rispetto a chi, come me, con una disabilità ci è nato e ha avuto tutta l’infanzia e la giovinezza per maturare le proprie strategie di sopravvivenza e contrasto al cosiddetto “abilismo”.

Oggi l’associazione vanta anche l’unica pattuglia al mondo di veivoli ultraleggeri composta da piloti disabili

Loro però ci sono riusciti e, grazie alla loro competenza e determinazione, hanno coronato un sogno e oggi l’associazione vanta anche l’unica pattuglia al mondo di veivoli ultraleggeri composta da piloti disabili. Attualmente una persona con disabilità può diventare pilota di aerei ultraleggeri, aerei ad aviazione generale, a motore e di aliante. Penso che i primi piloti e fondatori dei Baroni Rotti non siano da ammirare solo per il loro impegno e la loro competenza nell’esercizio della professione e per essere riusciti a superare le barriere del pregiudizio ma anche per la scelta di condividere la loro esperienza con altre persone disabili interessate ad intraprendere questo percorso di formazione professionale.

UN MESSAGGIO DIVERSO DA QUELLO A CUI SIAMO ABITUATI

Ad oggi sono dieci le scuole certificate dall’Aero Club d’Italia aperte anche ad allievi con alcune tipologie di disabilità motoria che quindi frequentano i corsi insieme ai compagni “normodotati”. Ovviamente tutti gli studenti devono aver ottenuto l’idoneità medica. Ritengo che i Baroni Rotti siano degli attivisti per i diritti delle persone con disabilità perché, attraverso la loro attività e i loro progetti, contribuiscono alla diffusione di un messaggio diverso da quello a cui siamo abituati. Infatti ci aiutano a capire che la una condizione fisica differente dalla norma non può essere considerata un limite ma piuttosto una sfida che apre a nuove possibilità e che in cielo, sì, forse ci sono meno barriere da abbattere rispetto alla terra ferma.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Guida al menù last minute per cenoni da single

Antipasti con acciughe, foie gras e caviale. Tortellini o calamarata di pesce spada come primi. Per i secondi cotture alla griglia o baccalà fritto. Champagne da bere e panettone artigianale. La soluzione per un workaholic che lavora fino al 31 e fa finta di snobbare le feste.

Si fa presto a dire che le feste natalizie sono dedicate alla famiglia, ai parenti e agli amici stretti. C’è chi, per scelta, trascorre nella completa solitudine anche il cenone, lavorando la sera del 24 o del 31 dicembre. Nella maggior parte dei casi chi sceglie di non festeggiare è un po’ anarchico e un po’ snob, se ne infischia delle ricorrenze di massa e, per coerenza, non fa sontuosi banchetti. Per lui le vigilie di Natale e di Capodanno equivalgono a un qualsiasi giorno dell’anno, non meritano cibi speciali, né di trascorrere le giornate ai fornelli. Ma c’è anche chi decide di regalarsi un menù di più portate, nonostante il lavoro. Ci siamo immaginati questa situazione: è la notte del 31 dicembre, esci dall’ufficio alle 19 e non vuoi rinunciare a un cenone tête-à-tête con te stesso. Che fai?

NIENTE RISTORANTI O GASTRONOMIA

La soluzione più semplice sarebbe andare in un ristorante, ma nel caso in cui non sia stata effettuata alcuna prenotazione e non ci fossero posti? Il piano B potrebbe essere comprare tutto già pronto in una gastronomia, ma se l’orario di chiusura non fosse compatibile con l’orario di uscita dal lavoro? Come organizzarsi per un cenone last minute solitario?

SUPERMERCATO E SPESA DI PESCE AZZURRO

La prima regola è andare in un supermercato ancora aperto e fare la spesa. Cosa comprare? Bisogna pensare a una cena che sia veloce da preparare, ma anche un po’ ricercata. Partiamo dagli antipasti. Pane, burro, acciughe: veloce, gustoso, low profile e anche un po’ da intenditori, considerando che il pesce azzurro sta tornando in auge. Un single workaholic che fa finta di snobbare il Natale, ma non vuole rinunciare al cenone, potrebbe però anche mirare a cibi che nella sua testa sono un po’ esclusivi, ma che nella realtà dei fatti sanno un po’ di parvenu. Quindi pan brioche con foie gras e caviale in purezza. Poi, giusto per aggiungere un tocco un po’ pop agli antipasti, una ciotolina di insalata russa ci sta sempre, già pronta ovviamente.

TORTELLINI SÌ, MA PER IL BRODO NON C’È TEMPO

Passiamo ai primi e andiamo sul classico: pasta fresca che, tradotto, significa tortellini. Ricordiamo che il nostro lavoratore snob esce tardi dall’ufficio e non ha tempo per dedicarsi alle lunghe preparazioni. Per cui i tortellini devono essere già pronti da cuocere, ma bisogna escludere il brodo, che è la morte della pasta fresca ripiena, e tornare a un must Anni 80. Tortellini con prosciutto, panna e parmigiano. Il plus potrebbe essere l’aggiunta del burro di affioramento, ma la spesa la facciamo al supermercato e non è detto che riusciamo a reperirlo. Se invece si rinuncia alla pasta fresca, si può tranquillamente andare su un primo molto veloce, ma gustoso. Calamarata con dadolata di pesce spada, aglio, olio, peperoncino, mentuccia, vino bianco.

BISTECCA AL SANGUE O TRANCIO DI TONNO

I secondi sono un po’ più impegnativi ed è difficile realizzarli con la clessidra del tempo in mano. Il consiglio è di andare sulle cotture alla griglia, quindi una bistecca al sangue potrebbe funzionare o, nel caso di pesce, un trancio di tonno. Se invece si ha voglia di mettersi ai fuochi, si può optare per una preparazione veloce, ma che dà sempre soddisfazioni: il baccalà fritto, un grande classico del Natale partenopeo. Comprate un bel pezzo di baccalà già ripulito della pelle, lavatelo e togliete eventuali lische, tagliatelo a pezzi grossi, infarinatelo e friggetelo. Potete abbinarci un’insalata di finocchi, limoni e arance o della cicoria saltata in padella con aglio e peperoncino.

UNA CREMA PASTICCERA AL VOLO

Da bere concedetevi il migliore champagne a tutto pasto. Non è per ostentare, ma che diamine, avete lavorato tutto il giorno, meritate un po’ di coccole. Il dolce della festa non può che essere il panettone, quello però sarebbe bello se fosse artigianale e magari fatevi una crema pasticcera (latte, zucchero, tuorlo, amido di riso, baccello di vaniglia e scorza di limone) per accompagnarlo. Per i cenoni delle feste si possono preparare dei menù anche last minute, dopo una giornata di lavoro, senza dover necessariamente trascorrere l’intera giornata ai fornelli e senza essere per forza dei custodi del focolare domestico. Un’unica raccomandazione: dopo il cenone solitario andate a letto, evitate il brindisi tristissimo con tanto di conto alla rovescia davanti alla tivù.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

L’esasperazione gastronomica ha stravolto il nostro rapporto col cibo

L'ossessione per il gourmet, gli chef superstar e i prodotti online hanno trasformato profondamente la nostra quotidianità alimentare. Mentre gli obesi aumentano di pari passo con gli affamati.

Contra los gourmets. Contro i gourmet e i golosi sapienti. È di Manuel Vazquez Montalban l’invettiva rivolta agli amanti e praticanti una cultura esasperata del cibo. Datata 1990, più o meno quando la gastronomia ha cessato di essere roba da cuochi diventando questione da chef. Non più sfida materiale con la fame, bensì alata conquista di stelle (Michelin). Inizio di una corsa all’esasperazione gastronomica che oggi risulta spesso ridicola e tragica nel contempo. Perché tra le intemerate in “broccolino” di Joe Bastianich a Masterchef e le esibizioni di Bruno Barbieri in “come ti sgrasso la pirofila con Fairy”, ci stanno i 600 euro per il cenone di fine anno da Cracco e le file di affamati davanti alle mense della Caritas

LA VISIONE ALTERATA DELLA REALTÀ ALIMENTARE

Vazquez Montalban nel suo pamphlet  se la prendeva con chi soddisfaceva crudelmente la propria golosità. Gettando animali vivi nell’acqua bollente ( lumache, aragoste) o inchiodando le zampe delle oche per ricavare più velocemente patè fois gras e più in generale trattando gli animali come “materia prima”. In una visione gastro-culinaria che vede le mucche come «animali tecnologici», ovvero produttori di latte, da cui tutta una serie di cibi quali yogurt, formaggi e gelati, che sembrano uscire da catene di montaggio piuttosto che da prati e stalle. D’altronde se i bambini crescono credendo che le mucche siano viola come nella pubblicità di Milka è perché una mucca dal vivo e al pascolo libero non la vedono nemmeno percorrendo tutta la pianura padana. Un territorio in cui ci sono milioni di capi e si producono ogni anno centinaia di migliaia di forme di Grana Padano e Parmigiano Reggiano.

AUMENTANO GLI OBESI E GLI AFFAMATI

Forse pensando anche alle rievocazioni in questi giorni del genio culinario di Gualtiero Marchesi, a due anni dalla sua scomparsa, dovremmo anche ripensare criticamente il nostro attuale status alimentare, che riguarda sia il rapporto personale con il cibo, sia l’importanza sociale che esso ha assunto. Soprattutto in relazione al drammatico paradosso di un’umanità che vede crescere sia le persone affamate che quelle sovrappeso, i digiunatori e gli obesi, gli anoressici e i golosi. I dati dell’Onu sono di una crudeltà statistica unica nel comprendere sotto lo stesso segno due eventi opposti. Il numero di persone affamate nel mondo nel 2018 risultavano infatti 821,6 milioni (pari a 1 abitante della Terra su 9) mentre gli obesi erano 672 milioni (13%, pari a 1 adulto ogni 8).

LA TRASFORMAZIONE DELLA QUOTIDIANITÀ ALIMENTARE

In questo periodo ogni anno si fanno i conti con la spesa degli italiani per il Natale o il cenone. Si stilano classifiche: chi sta vincendo o ha vinto la corsa ai consumi fra panettone o pandoro, champagne o prosecco. Di ricetta in ricetta, però, e spadellati televisivamente per bene, dall’Alessandro Borghese di turno o da chef Cannavacciuolo con il dito nel gorgonzola, non ci rendiamo più conto della trasformazione profonda che sta subendo l’intera quotidianità alimentare

LA CRESCITA DELL’E-COMMERCE

Il primo dato che si impone è la veloce crescita del e-commerce in un settore nel quale si pensava che il consumatore avrebbe continuato a comprare nei negozi tradizionali (salumerie in primis) e negli store della grande distribuzione. Lo pensavano, soprattutto, imprenditori e uomini marketing italiani, con il risultato di avere ora una struttura commerciale tradizionale in grande sofferenza e il fondato rischio di trovarsi presto esposti alla concorrenza micidiale dei giganti del web. Con in testa Amazon, seguito da Google, entrambi nei panni improbabili dei salvatori del Made in Italy

TORNARE ALLA LEZIONE DI MARCHESI

L’unica speranza e auspicio è che si faccia al più presto quel che è stato fatto con Alma, la Scuola internazionale di cucina italiana di Colorno, della quale Gualtiero Marchesi è stato Rettore e che continua ad attirare giovani cuochi da tutto il mondo. Ovvero che istituzioni e imprenditori creino una grande piattaforma di e-commerce nazionale. Con piglio e spirito ben più proattivo e meno lagnoso dei periodici lamenti, nei quali primeggia la Coldiretti, contro l’italian sounding e gli imitatori delle italiche eccellenze alimentari. 

IL WEB GRANDE EVERSORE

L’invito a entrare rapidamente nel futuro, che però è già adesso, ha la sua pressante ragione d’essere proprio alla luce della velocità con cui alimentazione e gastronomie stanno disegnando nuovi usi, costumi e consumi. Come s’è già accennato prima è anzitutto il web il grande eversore. Secondo la più recente ricerca realizzata da Netcomm, sono già 9 milioni gli italiani che nel 2019 hanno acquistato prodotti alimentari online, con un aumento del 43% rispetto all’anno precedente e con una spesa complessiva di circa 1,6 miliardi di euro.

IL RESET DEL SISTEMA ALIMENTARE

Che sia in corso un’epocale reset di sistema alimentare, culinario e eno-gastronomico è segnalato da due eccellenti contributi. Uno su 10 anni di politiche di “accesso al cibo”  negli Usa, che si segnalano per la disparità ed efficacia di garantire a tutti cibo più buono e più salutare. In nome di una “convenienza” di prezzo che a forza di sfruttare sempre più terreni e coltivazioni, così come mano d’opera e condizioni di lavoro, sta distruggendo il pianeta. E qui va anche segnalato come l’esistenza di negozi alimentari e supermercati, problematica nelle zone meno popolose (anche nel nostro Paese), sia un serio ostacolo al soddisfacimento di un regime alimentare corretto e piacevole, ma anche un’importante causa di esclusione sociale. Perché negozi e supermercati sono occasioni di socialità, luoghi in cui ci si ritrova non solo per fare shopping o mangiare. 

LA FINE DELLA PAUSA PRANZO

Il secondo articolo di The Atlantic sulla velocizzazione delle pause pranzo, è un lungo elenco di situazioni che nel tempo lavorativo, contestualmente all’emergere di nuove tipologie di imprese e di lavoro impiegatizio, oltre che di preparazione e vendita di cibi pronti (app e start up), si stanno mangiando, anzi divorando, la convivialità. È così, dopo che è «stato ucciso» il «power lunch», già lamentato qualche mese fa dal New York Post, cioè le lente colazioni in cui si facevano affari e si cementavano alleanze di business, millenial e startupper sono diventati facili prede del food superfast. Ovvero di “insalatone”, anche dai nomi e ingredienti esotici, mangiate in ufficio o per strada, e di piatti pronti che nemmeno più vengono consegnati da biker e driver del take away, perché ora stanno in chioschi automatici installati all’interno degli stessi posti di lavoro. Dispenser e start up del food «stanno lavorando assieme sia per eliminare il concetto di attesa per mangiare, sia per ottimizzare il pranzo stesso».

L’INSALATA DA SCRIVANIA È INARRESTABILE

Le «insalate da scrivania» a New York come a Milano, Torino e Roma, perché ormai il villaggio gastronomico è globale, dicono che quel modo solitario e fatalmente triste di consumare il pasto di mezzogiorno è vicino. Forse annunciato proprio dall’ossessione che ha assunto la spettacolarizzazione gourmet del cibo e della tavola. Che di sera, davanti alla tv, finalmente tranquilli e liberi di mangiare, consente di dimenticare la pausa pranzo di mezzogiorno e potere affrontare e reggere quella del giorno dopo.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Come superare l’abbuffata di Natale reinventando gli avanzi

Dopo menù infiniti serve riciclare il cibo. Pasticcio o frittata di pasta con i primi, polpette di tutti i tipi per i secondi, pappa al pomodoro, pancotto e basi per tiramisù: guida al Santo Stefano (e non solo) anti-spreco.

Diciamoci la verità: Natale è spesso anche una scusa per lasciarci andare al consumismo più sfrenato e giustificato. Nessuno bada a spese e, almeno per un giorno, tutti vogliono sentirsi Trimalcione. Via libera a sontuosi banchetti nel nome dell’opulenza, menù che vanno avanti all’infinito, a cui si vorrebbe dire basta, ma non si può perché è Natale.

MANCA LA COSCIENZA DELLO SPRECO

Durante il periodo delle feste il cibo dunque non manca, ma la coscienza dello spreco quasi sempre sì. Anziché buttare senza consapevolezza e in maniera selvaggia, forse sarebbe meglio pensarci prima, magari razionalizzando le vivande in base al numero dei commensali, oppure organizzarsi per il riciclo e dare una nuova vita agli avanzi.

ANTIPASTI: CI SALVERANNO LE TORTE SALATE

Partiamo dagli antipasti: considerando la lunghezza dei menù natalizi, bisognerebbe ridurli un po’. È vero che appena ci sediamo a tavola siamo affamati, ma dopo le prime cucchiaiate di insalata russa rinsaviamo e ci ricordiamo che ancora ci sono molte portate da affrontare. Gli antipasti sono sempre tra gli avanzi del giorno dopo. Come riciclarli? Le torte salate vanno sempre bene: preparate una pasta brisé con farina, sale e burro e farcitela con qualsiasi ingrediente: verdure, formaggio, salumi. Mettetela in forno e aspettate una ventina di minuti: avrete un ottimo secondo. L’insalata russa non potete metterla in forno, usatela per farcire dei fagottini di prosciutto cotto o mescolatela con il tuorlo bollito per delle uova ripiene. Avrete due piatti vintage che sono sempre di moda.

PRIMI: PASTICCIO E FRITTATA DI PASTA

La pasta fresca è un must natalizio: i tortellini in brodo dominano le tavole delle feste. Cosa farne se avanzano? Avete almeno due possibilità: il giorno dopo potete preparare un pasticcio di tortellini al forno, aggiungendo della passata di pomodoro e del parmigiano oppure infilzate tortellini avanzati in stecche di legno, a mo’ di spiedini, e friggeteli in una padella con olio, alla maniera bolognese. Se invece avete preparato delle tagliatelle, prendete come esempio i napoletani e date loro una nuova vita in una buonissima frittata di pasta. Basta poco: unite la pasta avanzata a uova, formaggio, pepe ed è fatta.

SECONDI: POLPETTE, POLPETTONE E COTOLETTE

I secondi delle feste saranno tanti, troppi. Impossibile non averci a che fare nei giorni successivi. Le idee per recuperarli sono diverse. Per esempio, il bollito avanzato è la base per realizzare dei buonissimi mondeghili, le polpette lombarde antispreco. Prepararli è facile: si impasta la carne del bollito con uova, parmigiano, pane raffermo, latte e pepe, si creano delle palline di forma ellittica, si impanano nel pangrattato e si friggono in burro o olio. Se avanza del baccalà, con lo stesso procedimento, aggiungendo aglio, patate lesse e prezzemolo, si ottengono dei bolinhos de bacalhau. Avete fatto troppo arrosto e non sapete cosa farne? Impastatelo con uova, formaggio, aglio, prezzemolo, prosciutto, mollica di pane ammollata nel latte, modellatelo a mo’ di grande palla allungata, mettetelo in una teglia su un soffritto di carota, cipolla e sedano, fatelo rosolare, bagnatelo con vino bianco e irroratelo di brodo, avrete un ottimo polpettone. Infine il cotechino, tagliato a fette, passato nelle uova, nel pangrattato, poi fritto, si trasforma in buonissime cotolette

PANE: BASE PER PAPPA AL POMODORO O PANCOTTO

Il pane è sempre sovrastimato durante le feste, se non fate in tempo a congelarlo, utilizzatelo raffermo in ricette di recupero, come la pappa al pomodoro e il pancotto. Entrambe sono molto facili da realizzare: per la prima basta preparare un soffritto con aglio, peperoncino, unire la salsa di pomodoro e poi aggiungere un po’ di brodo e il pane, che si deve inzuppare in modo da raggiungere la morbidezza giusta, senza però essere liquido. Per la seconda basterà ammorbidire il pane in un po’ di acqua calda e aggiungere, a seconda delle varianti, solo olio extravergine d’oliva e parmigiano, o anche speck, verdure o uova con formaggio.

DOLCI: I RESTI DEL PANETTONE NEL TIRAMISÙ

Infine i dolci. Quanti panettoni e pandori avanzeranno dalle feste? Tantissimi. Il modo più semplice per riutilizzarli è di inzupparli nel latte delle colazioni successive. Ma se avete voglia di qualcosa di più creativo, il suggerimento è di tagliarli a strisce, inzupparli nel caffè come base di un tiramisù, al posto dei savoiardi o della ciambella.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Lo stilista franco-italiano Emanuel Ungaro è morto

Figlio di un antifascista pugliese, aveva 86 anni.

Si è spento la sera del 21 dicembre a Parigi lo stilista Emanuel Ungaro. Aveva 86 anni ed era uno dei grandi della moda del XX Secolo. Nato in Francia, ad Aix en-Provence, il 13 febbraio 1933, Ungaro aveva chiare origini italiane. Il padre, pugliese di Francavilla Fontana, era un antifascista e fu costretto a emigrare in Provenza durante il Ventennio. Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali sono in programma la mattina del 23 dicembre a Parigi.

GLI INIZI COL PADRE

Ungaro era stato avviato all’attività sartoriale proprio dal padre, che l’aveva preso come apprendista fin dalla più tenera età, a nove anni. Dalla Provenza si trasferì prima a Parigi e poi a Barcellona, dove cominciò a lavorare con Balenciaga. Con lui passò sei anni, prima di andare a lavorare per altri due con Courrèges. Una “gavetta” che l’avrebbe portato a creare la sua griffe nel 1965, arrivando a presentare la sua prima collezione a 32 anni.

TRA I GRANDI DELLA MODA PARIGINA

Tornato a Parigi, Ungaro aprì il suo negozio principale all’inizio dell’Avenue Montaigne, arrivando negli anni Ottanta a essere considerato uno dei cinque nomi più importanti dell’alta moda parigina. La sua azienda è stata acquistata dal gruppo italiano Ferragamo nel 1996. A 63 anni, Ungaro decise di ritirarsi dalle gestione del marchio, per poi allontanarsi definitivamente dalla moda il 26 maggio 2004, dopo un’attività personale durata 35 anni. Nel 2012 la produzione e distribuzione del marchio è ripresa sotto l’egida di un’altra azienda italiana, la Aeffe.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Lo stilista franco-italiano Emanuel Ungaro è morto

Figlio di un antifascista pugliese, aveva 86 anni.

Si è spento la sera del 21 dicembre a Parigi lo stilista Emanuel Ungaro. Aveva 86 anni ed era uno dei grandi della moda del XX Secolo. Nato in Francia, ad Aix en-Provence, il 13 febbraio 1933, Ungaro aveva chiare origini italiane. Il padre, pugliese di Francavilla Fontana, era un antifascista e fu costretto a emigrare in Provenza durante il Ventennio. Ungaro lascia la moglie Laura Bernabei e la figlia Cosima. I funerali sono in programma la mattina del 23 dicembre a Parigi.

GLI INIZI COL PADRE

Ungaro era stato avviato all’attività sartoriale proprio dal padre, che l’aveva preso come apprendista fin dalla più tenera età, a nove anni. Dalla Provenza si trasferì prima a Parigi e poi a Barcellona, dove cominciò a lavorare con Balenciaga. Con lui passò sei anni, prima di andare a lavorare per altri due con Courrèges. Una “gavetta” che l’avrebbe portato a creare la sua griffe nel 1965, arrivando a presentare la sua prima collezione a 32 anni.

TRA I GRANDI DELLA MODA PARIGINA

Tornato a Parigi, Ungaro aprì il suo negozio principale all’inizio dell’Avenue Montaigne, arrivando negli anni Ottanta a essere considerato uno dei cinque nomi più importanti dell’alta moda parigina. La sua azienda è stata acquistata dal gruppo italiano Ferragamo nel 1996. A 63 anni, Ungaro decise di ritirarsi dalle gestione del marchio, per poi allontanarsi definitivamente dalla moda il 26 maggio 2004, dopo un’attività personale durata 35 anni. Nel 2012 la produzione e distribuzione del marchio è ripresa sotto l’egida di un’altra azienda italiana, la Aeffe.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Lo strano caso della Marcia di Radetzky de-nazificata in ritardo

Rivisto l'arrangiamento del brano suonato al concerto di Capodanno a Vienna: più morbido e meno marziale. E allora i legami con l'impero asburgico anti-libertario? Quella musica si è già auto riscattata: lasciateci solo il piacere di ascoltarla.

Leopold Weninger era un oscuro musicista di nessun interesse della prima metà del Novecento. I più dettagliati repertori musicali non gli dedicano una riga e solo se conoscete il tedesco riuscirete a trovare qualche sua notizia in Rete. Eppure godrà di una notorietà mai raggiunta durante la sua vita, conclusasi nel 1940 all’età di 60 anni.

WENINGER ISCRITTO AL PARTITO NAZISTA

Intorno al suo nome, infatti, si sta sviluppando la clamorosa novità del prossimo Concerto di Capodanno a Vienna: come ha annunciato Avvenire.it, la popolarissima Marcia di Radetzky, il brano che per immutabile tradizione costituisce l’ultimo bis del programma, verrà eseguita in forma “de-nazificata. È per questo che le luci si accendono su Weninger: oscuro, sì, ma anche nazista, iscritto al partito fin da prima della salita al potere di Adolf Hitler, attivo nell’ufficio culturale del partito per la zona di Lipsia. Autore, soprattutto, dell’arrangiamento della Marcia – scritta nel 1848 da Johann Strauss padre – che per tradizione praticamente ottantennale viene eseguito nella sala del Musikverein. E che è quello oggi universalmente conosciuto.

L’ACCUSA: VERSIONE TROPPO MILITARISTA E PROPAGANDISTICA

Weninger vi pose mano a metà degli Anni 30; qualche anno dopo il pezzo in questa versione – già inserito nel repertorio dei corpi musicali delle Ss – diventava un caposaldo del programma viennese, culmine di un concerto che iniziò in pieno nazismo, nel 1939, si tenne per tutti gli anni del conflitto ed è proseguito senza soluzione di continuità a guerra conclusa. Ora accusano la sua versione di eccesso di militarismo e di evidenti intenzioni propagandistiche.

NEL 2020 ARRANGIAMENTO PIÙ MORBIDO E “VIENNESE”

Avessero detto che fu imposta per ragioni politiche, avrebbero avuto probabilmente anche ragione, ma si parla proprio di fatti squisitamente musicali. Orchestrazione, accentuazione del ritmo e così via. A quanto pare il nuovo arrangiamento curato “in casa” dai Wiener, che il direttore Andris Nelsons eseguirà verso le 13.30 alla testa dei Wiener Philharmoniker la mattina del primo gennaio 2020, risponde molto di più all’originale: meno scandita, più morbida e “viennese”. Non marziale.

VIETATO ANCHE BATTERE LE MANI A TEMPO?

Nel mirino anche l’abitudine di battere a tempo le mani accompagnando l’orchestra: consuetudine nazista. Insomma, il pubblico internazionale che da sempre affolla quella che è forse la più popolare manifestazione musicale non pop-rock dei nostri tempi soggiace ignaro da più di settant’anni alla propaganda hitleriana. Fosse vero che da qualche parte in Sudamerica il dittatore è sopravvissuto a lungo all’incenerimento del suo Reich millenario, avrebbe avuto di che compiacersene.

DUNQUE SI SONO ACCORTI CON 73 ANNI DI RITARDO

Eppure, una domanda sorge spontanea – come suole dirsi. Ammesso e non concesso che sia davvero così, che l’arrangiamento di Weninger è un’esaltazione in musica del nazismo, com’è possibile che a Vienna ci abbiano messo 73 anni a liberarsene? Pare che qualche direttore, nei decenni scorsi, avesse avuto qualche perplessità, ma che non sia mai riuscito a far prevalere l’idea di cambiare. È un fatto che se cercate la Marcia su Google, la prima occorrenza che trovate è un video di YouTube, il cui titolo affianca la venerata memoria di Claudio Abbado, sicuro democratico, con il nome dell’oscuro nazi-arrangiatore…

MA GLI AFFARI, SI SA, SONO AFFARI

Risposta intuitiva: gli affari sono affari. La Marcia di Radetzky è un “greatest hit” e ha un ruolo centrale nell’assicurare la montagna di denaro generata dal Concerto di Capodanno: vendita di dischi, di video e Dvd, dei diritti televisivi in 70 o più Paesi del mondo. Non è mai troppo tardi per correggersi e cambiare, ma non è certo una bella figura, quello che fanno i sommi Wiener Philharmoniker. Come minimo sono stati molto distratti per molto tempo…

STRAUSS PERÒ SOSTENEVA L’IMPERO ASBURGICO…

Comunque, dal 2020 si rimedia: la Marcia di Radetzky sarà de-nazificata, si riparte dalla versione originale, l’urtext come dicono i tedeschi. Alles in ordnung, caso chiuso? Mica tanto. A questo punto non si può fingere di ignorare che Johann Strauss senior era un riprovevole ammiratore e sostenitore dell’impero asburgico oppressore dei popoli in rivolta per la libertà, nel fulgido 1848. Il nuovo arrangiamento della Marcia sarà anche libero da “ombre brune”, ma l’originale a cui fa riferimento è un inno reazionario e anti-libertario, motivato dall’entusiasmo (e dal sollievo: anche Vienna era stata attraversata dalla rivolta) per la vittoria di Custoza, con cui alla fine di luglio di quell’anno Radetzky aveva stroncato le speranze dei patrioti italiani.

Una pubblicazione sulla Marcia di Radetzky.

UNA FESTA CHE ESALTAVA L’OPPRESSIONE DEI POPOLI

Quella musica, come si legge nel frontespizio di una pubblicazione d’epoca, fu scritta «in onore del grande generale» e fu anche «dedicata all’Imperial-Regio esercito». Militarismo al quadrato, culto di una personalità al servizio della reazione sul filo delle baionette. Un pezzo scritto per festeggiare l’oppressione dei popoli, quello italiano della Lombardia e del Veneto, prima di tutto, ma con esso tutti i popoli delle nazionalità conculcate dagli Asburgo a metà dell’Ottocento.

LA VERITÀ: NON È PIÙ SIMBOLO DI NIENTE TRANNE CHE DI SE STESSA

Da qualsiasi parte la si giri, questa Marcia è una grana. Solo apparentemente unisce nel gradimento i pubblici di tutto il mondo, in realtà è profondamente divisiva. Forse la soluzione finale è una sola: non eseguirla proprio più. Fuori di provocazione: anche se arrangiata dal propagandista nazista Leopold Weninger, dopo 70 anni di fasti esecutivi viennesi per Capodanno la Marcia di Radetzky è mondata da ogni ombra, novecentesca o risorgimentale. Si è auto riscattata, per così dire. Il suo presunto bieco militarismo è stato sublimato. Oggi non è più un simbolo di niente tranne che di se stessa e soprattutto del piacere di ascoltarla. Sarebbe molto più semplice lasciare tutto come sta, ma è inutile illudersi. Forse è proprio quel piacere che ci vogliono togliere.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Consigli natalizi per normaloidi

Se vi capiterà di incontrare una persona disabile durante le feste, non preoccupatevi. Ecco alcuni consigli per gestire al meglio la situazione.

Cari normaloidi,

le feste natalizie si avvicinano e a Natale, si sa, siamo tutti più buoni. Questo è il periodo ideale per compiere delle buone azioni nei confronti di chi considerate più sfortunato di voi. A volte però non riuscite ad avere un’opinione condivisa rispetto a chi lo sia effettivamente (secondo voi, è ovvio) e su chi invece finga di esserlo. Rispetto ai profughi e ai migranti, ai senza fissa dimora, alle vittime della tratta, a chi fa uso di sostanze stupefacenti, per esempio avete idee discordanti: c’è chi tra voi li considera delinquenti, approfittatori e persone da evitare e chi invece li ritiene “pecorelle smarrite” da redimere e salvare.

Pensate che siamo tutti buoni, sfortunati, innocenti e asessuati

Ma esiste una “categoria sociale” che vi mette tutti d’accordo: quella delle persone con disabilità. Di noi pensate che siamo tutti e tutte buoni, sfortunati, innocenti come bambini, bisognosi del vostro aiuto e, naturalmente, asessuati come angeli. Fate bene a crederlo, è proprio così. Permettetemi dunque di darvi qualche piccolo consiglio rispetto a cosa pensare e come comportarvi se per caso vi capiterà di imbattervi in una persona disabile durante le imminenti festività.

1. LA PERSONA DISABILE È SEMPRE BUONA

Al ritorno dalle compere natalizie trovate la vostra auto, che avevate indebitamente parcheggiato in un posto riservato alle persone con disabilità, con le ruote a terra e la portiera rigata. Poco distante, una persona in sedia a rotelle sogghigna soddisfatta con un punteruolo in mano. Non dubitate di lei: non c’entra niente con l’atto di vandalismo che avete cotanto ingiustamente subito. La nostra risaputa e proverbiale bontà, infatti, ci impedisce di ribellarci quando subiamo una discriminazione e anzi proviamo un certo godimento nel veder calpestati i nostri diritti. Vi consiglio perciò di rassegnarvi, non troverete mai il colpevole. Non vi resta che contattare la vostra assicurazione, augurandovi che per “sfiga” non sia scaduta proprio in quei giorni.

2. LA PERSONA DISABILE È SEMPRE POVERA

Quando incontrate una persona disabile non offritele dolciumi, ma denaro. Infatti, la persona con disabilità è povera per definizione. È consigliato donare banconote di grosso taglio, più comode e maneggevoli. Nel caso foste a corto di contanti, non rammaricatevene: non siamo attaccati alla moneta. Ci vanno benissimo anche gli assegni o i beni immobili. In quest’ultimo caso, è preferibile regalare una villa con piscina, terapeutica per il corpo e lo spirito Oppure un diamante che, si sa, è per sempre. Se siete contrari ad elargire soldi o beni d’altro tipo agli sconosciuti, mi permetto di farvi notare che una persona con disabilità non è mai un ignoto qualsiasi: è come se fosse tuo fratello, sorella, mamma, zio, peluche del cuore. Insomma, ci siamo capiti: non siate taccagni e sganciate la grana. Qualora vi capitasse, qualche tempo dopo aver compiuto la vostra buona azione, di vedere il destinatario del nobile gesto a bordo di una Rolls Royce, mentre sorseggia champagne prenotate una visita dall’oculista perché sicuramente avete problemi di vista: il poveretto non si sarebbe mai potuto permettere un lusso simile.

3. LA PERSONA DISABILE NON VA IN VACANZA

Siete albergatori di una località turistica invernale. Alla reception si presenta un turista con disabilità motoria o sensoriale che vuole prenotare una stanza, ma, proprio in quel momento, vi ricordate che la vostra struttura è piena di barriere architettoniche. Non avreste mai immaginato che anche una persona disabile potesse andare in vacanza? Tranquilli, a tutto c’è rimedio: potete offrirvi di dargli una mano a superare le barriere architettoniche che non avete provveduto ad eliminare, regalandogli pure il soggiorno gratuito o pagargli la permanenza in una struttura agibile. Sono sicura che dopo quest’esperienza il vostro hotel diventerà un esempio di accessibilità.

4. LA PERSONA DISABILE SPERA SEMPRE NEL MIRACOLO

A tutti i devoti e ferventi cattolici dell’universo: non cercate di miracolarci con la scusa della (ri)nascita di Gesù Cristo. Dovete mettervi in testa una volta per tutte che non ce ne importa proprio niente di diventare “normali” come voi. Non ci interessa perché pensiamo che la nostra diversità sia una ricchezza per tutti e anche perché, diventando la maggioranza di cui voi fate parte, non vorremmo rischiare di incorrere nel vostro tragico fatale errore: ritenervi superiori a noi e quindi anche migliori.

5. LA PERSONA DISABILE NON FA SESSO

Se la notte di capodanno trovate una persona con disabilità a letto con il/la vostro/a partner non allarmatevi: non stanno facendo sesso anche se tutto ciò che state vedendo sembrerebbe dimostrare il contrario. Avete sempre pensato che fossimo angeli asessuati, incapaci di attrarre ed essere attratti da qualcuno, non è così? Beh, allora potete stare tranquilli perché la vostra vita di coppia non corre alcun pericolo. Fossi in voi mi preoccuperei soltanto di far alzare gli stipiti delle porte.

SE AVETE COLTO IL SARCASMO SIETE SULLA BUONA STRADA

Cari amici “normodotati” se, leggendo queste mie parole, avete notato un filo di sarcasmo, se avete avuto l’impressione che mi burlassi un pochino di certi vostri pregiudizi e luoghi comuni, rallegratevi, avete compreso correttamente. Non abbiatene a male, averlo capito significa che siete sulla buona strada per comprendere che i preconcetti ed il senso di superiorità nei confronti di persone arbitrariamente definite “non abili” e per questo diverse e quindi sfortunate sono falsi e inutili. Bisogna ripartire da una collaborazione tra pari. Solo così riusciremo a costruire una società più giusta per tutti. Buon Natale.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

La narrazione distorta dello spettacolo teatrale sulle banche venete

Il Comunale di Vicenza chiude le porte a "Una Banca Popolare". Che ha debuttato a Venezia tra perplessità e indignazione. Effetto di una lettura del terremoto BpVI sbilanciata a favore di Zonin.

Al teatro Comunale di Vicenza hanno già deciso. Commenti non ne filtrano, ma la scelta è netta: Una Banca Popolare, novità di Romolo Bugaro prodotta dal Teatro Stabile del Veneto, che ha debuttato al Goldoni di Venezia a metà dicembre, non approderà nella città più ferita dal tracollo delle Popolari venete. Nessuna sorpresa. Si parla di un palcoscenico che dista meno di 100 metri da quello che fu il quartier generale della Banca Popolare di Vicenza, l’istituto di credito presieduto da Gianni Zonin, fallito trascinando nel crac oltre 100 mila soci. Le finestre dell’ultimo piano del palazzo di via Framarin, dove si trovavano gli uffici dei Vip e la sala del consiglio di amministrazione, danno proprio sul teatro progettato da Gino Valle e aperto nel 2007. BpVI era fra i soci fondatori, aveva due rappresentanti nel consiglio della Fondazione costituta ad hoc dal proprietario, il Comune di Vicenza, per la gestione. E supportava con un sostanzioso contributo – 200 mila euro all’anno – le attività di spettacolo.

BELTOTTO, DA ZAIA AL TEATRO STABILE

Sono passati due anni e mezzo dal crollo e molto è cambiato. Banca Intesa, che al prezzo di un euro ha rilevato la Popolare fallita, in consiglio non c’è e ha dimezzato il contributo. Rimane importante la presenza della Regione, più incisiva da quando l’Amministrazione comunale di Vicenza, a giugno del 2018, si è allineata a centrodestra con quella veneta. Il dettaglio non è privo di significato. La Regione ha nello Stabile l’istituzione teatrale di riferimento: fra l’altro, il presidente è Giampiero Beltotto, in passato (dopo essere stato caporedattore della Rai a Venezia) per cinque anni portavoce di Luca Zaia, inamovibile governatore. E questo fa capire che dire no allo Stabile, anche solo per la distribuzione di un allestimento, non è così semplice. Il fatto è che questo spettacolo – ampiamente pubblicizzato prima dell’andata in scena come lettura delle vicende bancarie venete “dalla parte dei cattivi” – appare decisamente sbilanciato in una prospettiva che si può definire solo come “filo-zoniniana”.

L’opera è stata prodotta dal Teatro Stabile del Veneto.

A Venezia, il debutto e le repliche sono caduti in una certa pubblica indifferenza e in varie private indignazioni. Alla prima il teatro era tutt’altro che pieno e le accoglienze non sono state propriamente entusiastiche. Devono essere bastati i resoconti molto cauti della carta stampata per indurre un gruppetto di poche persone a recarsi al Goldoni, assistere all’ultima replica, non applaudire e “aspettare fuori” l’autore e il regista, Alessandro Rossetto. Volevano “chiedere spiegazioni” si è letto in una cronaca del quotidiano Nuova Venezia, difficile che quelle avute da una aiuto-regista (gli altri asseritamente non erano presenti) siano state soddisfacenti.

Dall’8 al 12 gennaio la partita si sposterà al Verdi di Padova, città decisamente più coinvolta di Venezia nel terremoto BpVI

Passate le feste, dall’8 al 12 gennaio la partita si sposterà al Verdi di Padova, città decisamente più coinvolta di Venezia nel terremoto BpVI. E si vedrà quale accoglienza sarà riservata al debutto nella drammaturgia dell’autore di casa Bugaro, avvocato-scrittore che gode di buona notorietà per una serie di romanzi spesso ad ambientazione veneta che gli sono valsi anche due ingressi nella cinquina del premio Campiello, nel 1998 e nel 2007. La sua scrittura teatrale, però, appare sostanzialmente deludente. E la sua lettura del caso banche venete sembra andare in direzione di una narrazione che è singolarmente sovrapponibile a quella che Gianni Zonin sta portando avanti da quando ha deciso di tornare in pubblico, di rispondere ai giornalisti e di partecipare alle udienze del processo in cui è imputato.

BUGARO E «I NAZISTI DELLA BCE»

È la narrazione di una gestione bancaria che è fallita per avere voluto pervicacemente fare l’interesse dell’economia del territorio e che riconduce il crollo alla capziosità dei controlli di Bankitalia e della Bce («i nazisti della Bce» fa dire testualmente Bugaro al suo presidente della fittizia Popolare del Nordest). Scrollandosi di dosso con arrogante sicumera ogni responsabilità per qualsiasi “mala gestio”, per qualsiasi comportamento illegale. Tutto questo avviene in un lunghissimo monologo (45 minuti peraltro ben sostenuti dall’attore Fabio Sartor) che come tutti i monologhi non prevede contradditorio, prospettiva diversa, sviluppo dialettico. Il banchiere Gianfranco Carrer (così si chiama il personaggio nello spettacolo) racconta la sua verità: un singolare spot teatrale per le tesi difensive dell’ex banchiere Zonin in tribunale a Vicenza. Che in questo dovesse consistere la pur interessante scelta di portare sulla scena il grande crac del Veneto è revocabile in dubbio.

Una scena di “Una Banca Popolare”.

Bugaro si limita ad abbozzare (nella prima parte) il ruolo e le miserie del “cerchio magico” che stava intorno al presidente della Banca Popolare: imprenditori e professionisti che hanno goduto di un trattamento privilegiato, si sono prestati a operazioni poche chiare spesso (ma non sempre) risolte in cospicui rovesci finanziari e solo alla fine, quando è esplosa la crisi, hanno scaricato il loro “benefattore”. Ma il lungo monologo finale cancella anche questo pur parziale tentativo di articolare di più e meglio il discorso. Che mai accende una luce sul colossale tradimento della fiducia di decine di migliaia di risparmiatori. Altri elementi, poi, sono destinati ad alimentare le polemiche.

IL PASSATO DI BELTOTTO ALLA BPVI

Sorprende ad esempio che alla produzione di uno spettacolo così a tesi (ne è prevista una versione cinematografica) partecipi la “Jole Film” di Marco Paolini, il popolare autore-attore che completa in questo modo un inedito percorso di avvicinamento allo Stabile, già contrassegnato da una significativa presenza nei suoi cartelloni. E incuriosisce, diciamo così, il fatto che Beltotto sia stato l’ultimo responsabile della comunicazione, prima del definitivo tracollo, della Banca Popolare di Vicenza. In quei mesi, Beltotto era già vicepresidente dello Stabile e lo era anche successivamente, quando il suo predecessore, Angelo Tabaro, decise di concretizzare il progetto di Una Banca Popolare. Infine, nell’ottobre 2018 Beltotto è diventato presidente. È stato lui, quindi, a seguire la definitiva realizzazione dello spettacolo. Al limite, come testimone del crollo, avrebbe anche potuto esserne un personaggio.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I rumors da Sanremo: nel toto giuria spunta la sardina Santori

A 50 giorni dal Festival di tutto si parla fuorché di cantanti. Ospiti, influencer e un giudice "popolare": i nomi che rimbalzano nei corridoi dell'Ariston.

Sarà un caso, ma a 50 giorni dal Festival di Sanremo, e il 70esimo Festival, mica uno qualunque, di tutto si parla fuorché di cantanti; et pour cause, come vedremo tra un attimo. Anzitutto, si parla di ospiti: e Tiziano Ferro, che se no un Festival non è un Festival, e Jovanotti, per un Sanremo più equo e solidale, tanto gli uccelli fratini all’Ariston non fanno il nido, almeno loro, e Rosario Fiorello, che all’Ariston ci ha messo radici, e Roberto Benigni che all’Ariston ci ha messo le tende. Benigni arriverà zompettando su musica pinocchiesca, dirà le due solite amenità ammuffite, zomperà in braccio al Nasone Amadeus, leggerà, male, malissimo, qualche terzina incatenata di Dante e tutti, all’unisono: ah, Benigni, che grosso genio che è lui. Perché il cattoprogressista reazionario Benigni ormai è intoccabile, insindacabile, garantisce Mollica, che del Festival è il corifeo.

UNA INFLUENCER AL FIANCO DI AMADEUS

Poi si parla di vallette, termine sessista, in disuso ma non è colpa nostra, è il Nasone che le concepisce così: preso da megalomania alla geom. Calboni, ne vorrebbe dieci, due per sera, ma tutte gli danno picche, Monica Bellucci gli dà picche, Lady Gaga picche, o è scarso l’appeal del nasone o è scarso l’appeal del gettone (di presenza). A fianco di Amadeus, siccome Sanremo è impagabile nel prendere il peggio del presente, dovrebbe andare una influencer. Tramontata, pare, la stella sanremese di Chiara Ferragni, eclissata quella di Giulia de Lellis, manda bagliori Diletta Leotta, a meno di qualche concorrente dell’ultimo minuto ancor meno adatta al ruolo, che so, una Taylor Mega. Comunque vada sarà un successo, perché nessuna di queste è minimamente in grado di presentare e le gaffe e gli imbarazzi non si conteranno; ed è per questo che sarà un successo, si punta, come è chiaro, sull’inadeguatezza, cosa che, oltre a divertire “il pubblico a casa”, a intasare i social, a scandalizzare, ma neanche tanto, i severi critici stampati, farà risaltare la professionalità del Nasone, secondo la celeberrima legge di Murri, il medico che usava circondarsi di macellai: ne accoppavano a dozzine, ma lui per converso risaltava come eminente scienziato.

UNA SELVA DI CANTANTI RIBOLLITI

E veniamo così al piatto debole, i cantanti. E che? Siamo sempre alla ribollita, alla rifrittura più micidiale: si parla di Elodie, per la serie “kikazè”; di Levante, la indie più mainstream che c’è; Anastasio, che è l’unico solido ma pare già normalizzato; Irene Grandi, altra habitué spietata, Francesco Renga, un anno sì e l’altro pure, e così Arisa, che a quanto pare torna, sospinta dalla Sugar di Caterina Caselli, dopo la partecipazione di appena un anno fa: cantava Mi sento bene ma, essendo costipata, la sera della finale fece una figura imbarazzante. Ma si parla pure di Marco Masini, il più classico dei rieccoli, Enrico Ruggeri, che forse lo supera, Bianca Atzei, che si legge RTL 102,5, Marcella Bella e Riccardo Fogli (stavolta senza Facchinetti), e perfino Paolo Vallesi, di cui non si sentiva la mancanza da 29 anni, e perfino Max Pezzali, quando si dice “non ci libereremo mai degli anni Novanta, Ottanta, e pure dei Settanta, e pure, volendo, dei Sessanta. Al Bano, che a Sanremo partecipava già prima ancora che fosse inventato, ha declinato la gara, “non ho più l’età”, ma non l’ospitata con Romina e qui siamo all’eterno ritorno dell’uguale, all’infinità circolare del tempo.

ospiti-sanremo-2020-partecipanti
Il conduttore Amadeus.

Un altro che lontano dalla Riviera non ci sa stare è Ermal Meta, per non dir di Rocco Hunt, rapper boomerang, da Napoli a Sanremo quasi tutte le edizioni, di Francesca Michielin, la promessa più eterna che c’è, di Chiara Galiazzo, e si torna alla categoria “kikazè”. Altri sugheri che riemergono inesorabili dal mar di Sanremo, e dei quali si fa il nome: Giusy Ferreri la “tormentara”, Samuele Bersani, Noemi, Anna Tatangelo, Alex Britti, Gianluca Grignani. Tra i rapper, Rancore e Tormento, una ventata di positività e gioia di vivere; mormorato anche Michele Bravi, che tornerebbe così alla musica dopo l’annunciato ritiro a seguito del dramma stradale che lo coinvolse. Quindi i solisti rimasti soli: Tommaso Paradiso, che non è più thegiornalista, Francesco Gabbani, che non è più l’erede di Celentano (e quando mai lo è stato?) e nessuno se lo fila già più, secondo profezia Pippobaudesca (“Non dura, questo non dura…”), Francesco Bianconi, dai Baustelle alle fustelle festivaliere, Enrico Nigiotti, che non è più il cocco di Mara Maionchi e, boja dè, torna, forse, sull’Ariston per la seconda volta consecutiva: altro che Nonno Hollywood, questo qui a Sanremo ci stationa, Nonno Ariston.

IL MANUALE CENCELLI DEL FESTIVAL

Ma la vera libidine, come diceva Jerry Calà negli Anni 80, sono gli outsider (maddeché?): Diodato, Gualazzi, la ereditiera di professione Elettra Miura Lamborghini, responsabile dell’epocale singolo Pem Pem, poi i sottokikazè: Fred de Palma, rapperon del reggaeton che ha già rotto i maron, forse in duetto con tale Ana Mena, e sai la menata; Pinguini Tattici Nucleari, perché la quota indie va sempre rispettata (indie de che, li pompa la Sony), Alberto Urso, perché pure sulla quota Maria de Filippi non si scherza, e infine la Quota X Factor, perché a Sanremo si va col vecchio infallibile manuale Cencelli: oltre a un figlio famoso, di cui si dirà tra poco, i nomi che girano sono, purtroppo, quelli di Luna Melis, che il talent di Fremantle ha bruciato come babycantante ma lanciato come babypresentatrice, e di Martina Attili, assai presunta genietta già all’ultima spiaggia sanremese.

Tommaso Paradiso.

Sulla pletoria dei probabili, però, si staglia come un totem lui, l’unico e il solo: Piero Pelù, rockstar stagionata, look da ciucaio di Pinocchio, profeta del vaffanculoooh ante Grillo: Andreotti vaffanculooh, Craxi vaffanculooh, Licio Gelli vaffanculoooh (poi ci finì a Villa Wanda a prendere il tè), Renzi vaffanculoooh, Salvini vaffanculoooh, attualmente in quota grillina. Simpatico, originale, sempre coerente. E va a Sanremo a portare il rock formato mezzo toscano.

Per un Bocellino che non c’è, Matteo, segato o ritirato lui dalle selezioni, un Gassmanino invece c’è, sia pure nel sottoclou dei giovani

Categoria figli di un cognome. Per un Bocellino che non c’è, Matteo, segato o ritirato lui dalle selezioni, un Gassmanino che invece c’è, sia pure nel sottoclou dei giovani: Leo a X Factor non aveva brillato, ma così carino, così educato, così (in)titolato, come fai a dirgli di no? Si toglie anche Brunori sas, che la promozione al nuovo album se la fa altrove. Tutto il cast di Sanremo, condotto da Amadeus, comunque, sotto la direzione artistica di Amadeus, verrà annunciato il 6 gennaio durante I soliti ignoti, presentato da Amadeus, il quale ha appena fatto sapere che il dado è tratto: ha deciso, ha scelto i 22, sempre lui, Amadeus, perché le sinergie sono importanti e Amadeus modestamente è una sinergia umana, sinergia di se stesso, una Matrioska singerica. Tanto la minestra sarà più o meno sempre quella.

METTI UNA SARDINA ALL’ARISTON

In compenso, succose indiscrezioni a livello portineria si sprecano, eccone una dal sen fuggita di uno che sta nel business: «Sai, stiamo valutando se chiamare il capo delle sardine, Mattia Santori, magari infilandolo in extremis nella giuria di qualità: di musica non sa niente, ma effettivamente è molto televisivo. Oh, però mi raccomando, è ancora tutto in forse, dipende anche da come vanno le elezioni in Emilia Romagna [sic!], tu però non scrivere niente, eh!». Io lo scrivo. Perché niente andrà tenuto nascosto al popolo. Aggiungendo, però, che allo stato è solo una pazza idea (o qualcosa di più? Ah, saperlo…). Dulcis in fundo, sembra molto, molto pompata la partecipazione di quest’astro nascente della discografia molto alternativa, oh, un altro “erede di Lucio Battisti” (Dente ci è ormai morto sulle dita mentre scrivevamo, appena ieri, che era l’erede di Lucio Battisti). Ha un nome d’arte vagamente indisponente, tale Fulminacci e, a richiesta se a Sanremo ci va, risponde con decisione: «Sì, no, beh, non lo so, non se n’è parlato, però, chissà, potrebbe anche essere, che ne so». Sardinitas sardinitatum, et omnia sardinitas.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Perché nessuno riesce a sfuggire al kitsch di Instagram

Quello che era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, sul social network delle foto diventa un’estetica e uno stato d’animo. L'estratto del libro di Paolo Landi "Instagram al tramonto".

All’imbrunire Instagram ha un’impennata di “like”: perché milioni di persone, in tutto il mondo, sentono il bisogno di condividere l’immagine del sole che cala? Consultiamo Instagram in modo talmente compulsivo ormai da trascurare di interrogarci sul perché lo facciamo. Paolo Landi, con la sua lunga esperienza nel mondo della comunicazione, crede di aver compreso come mai postiamo le foto del cane, di un tramonto e di una pizza.

estratto-instagram-al-tramonto-libro-paolo-landi

CON 16 IMMAGINI DI OLIVIERO TOSCANI

Con puntigliosità pedagogica vuole condividere queste scoperte: avrebbe voluto farlo in modo ironico e leggero, poi l’enormità dell’ipermercato sempre aperto che si nasconde dietro Instagram lo ha impressionato e il resoconto ha preso un tono qua e là apocalittico. Ma si è divertito a scriverlo, rivelando prima di tutto a se stesso le molte facce di questo social, che seduce e coinvolge, portandoci a condividere pezzi della nostra vita, senza mai farci sospettare che le merci in vendita sui suoi scaffali planetari siamo noi. Nel libro, 16 immagini di Oliviero Toscani sintetizzano i punti salienti del testo, quasi un piccolo reperto di archeologia del presente.

  • Le 16 immagini di Toscani

L’AUTORE: UNA CARRIERA TRA MARKETING E COMUNICAZIONE

Paolo Landi, advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende, ha pubblicato Lo snobismo di massa (1991), Il cinismo di massa (1994), Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore (2000), Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino (2006), Impigliati nella Rete (2008), La pubblicità non è una cosa da bambini (2009).

estratto-instagram-al-tramonto-libro-paolo-landi-autore
L’autore Paolo Landi. (foto Maki Galimberti)

Lettera43.it pubblica un estratto del libro Instagram al tramonto (La nave di Teseo editore, 112 pagine, 12 euro, Milano 2019).

IL KITSCH

Si sfugge al kitsch di Instagram solo uscendo da Instagram. Si può essere animati dalle migliori intenzioni, sostenuti da una cultura solida e da un gusto impeccabile, ma tutti i mosaici di Instagram sono irrimediabilmente kitsch. Non solo i tramonti, i fiori, i piatti di cibi prelibati, il mare e la prima comunione del figlio: anche gli interni di case altoborghesi, il quadro fotografato al Louvre, la “conchiglia” del Guggenheim, la copertina di un libro Adelphi su Instagram si ammantano della melassa tipica del cattivo gusto.

Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”

Ciò che prima era visibile da un occhio intelligente – e in un contesto preciso – ora lo può vedere chiunque, fuori contesto. I milioni di foto che si riversano su Instagram ogni giorno provocano un logoramento insieme morale e sensoriale. Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”. E spesso ci intestardiamo di trovare il bello nell’umile o nel banale, cercando di riscattarli con il pathos della realtà. Instagram offre l’esperienza fugace di un mondo senza conflitti, senza sofferenza, senza odio né tragedie, una realtà continuamente abbellita che finisce per presentarsi come una iperrealtà falsa.

Non ci sono più scale gerarchiche e se un fotografo famoso posta le sue foto su Instagram, queste non riusciranno ad emergere nell’appiattimento dei criteri formali che la democratizzazione dell’idea di bellezza di Instagram ha prodotto. Il kitsch, che in epoca moderna era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, su Instagram diventa un’estetica e uno stato d’animo – il più delle volte inconsapevoli e involontari – legittimi e ampiamente diffusi. Tradizionalmente associata a modelli esemplari – nella Grecia classica, per esempio, l’arte mostrava solo corpi giovani, nella loro perfezione – la bellezza secondo Instagram esiste dappertutto, col risultato di azzerarla ovunque.

Per Instagram non c’è nessuna differenza tra lo sforzo di abbellire il mondo e quello di rivelarne la verità. Instagram reagisce all’idea convenzionale di bellezza dilatando enormemente la nostra idea di ciò che è interessante o piacevole guardare. E lo fa in nome della verità e della convinzione che i suoi mosaici forniscano informazioni reali e importanti sul mondo, inteso come globo ma più spesso e più prosaicamente ridotto a un ambito domestico. La foto famosa e anonima del cadavere del bambino migrante restituito sulla spiaggia dal mare ci ha commossi e indignati perché documenta una sofferenza che Instagram rende vicina, verificabile nella sua verità ma segnandone, nello stesso tempo, la distanza.

Chi ha usato il “repost” per quella foto ha piuttosto voluto comunicare il suo grado di partecipazione e di commozione a quell’evento tragico ma, poiché ogni foto su Instagram è solo un frammento, il suo peso morale ed emotivo varia, dipendendo dal contesto in cui quella foto viene mostrata. Un conto è il profilo di Save The Children, dove l’immagine del cadavere del bambino risulterebbe contestualizzata, un conto il nostro profilo, tra selfie, piatti gourmet e gite fuori porta. Come per ogni altro medium, le fotografie postate su Instagram cambiano a seconda dei contesti in cui vengono inserite: ogni profilo suggerisce un modo diverso di usare una foto, senza riuscire a fissarne il significato.

Instagram riesce a trasformare in oggetto di godimento qualunque cosa, dai condomini concentrazionari di Hong Kong – dove deve essere spaventoso abitare, ma che fotografati sembrano belli e simmetrici – alle favelas colorate di Rio, agli ultimi ritocchi mostrati sul profilo di un chirurgo estetico. Si resta affascinati da quasi tutte le fotografie di Instagram e nello stesso tempo turbati dall’inesorabilità con cui vengono appiattite. È talmente forte la tendenza estetizzante delle foto di Instagram – sia che siano eseguite da gente colta e informata, sia da persone semplici e non acculturate – che nessuna sfugge al kitsch, risultando tutte, anche il tramonto più spettacolare, anche il volto di un bambino, triviali.

Instagram propone un mondo trasformato in un ipermercato dell’immagine, dove ogni soggetto è degradato ad articolo di consumo e promosso a oggetto di ammirazione estetica. Grazie a Instagram diventiamo tutti clienti della realtà, o delle realtà, perché i mondi di Instagram sono tutti arraffabili, nella loro confusione, come la merce in un negozio low cost nel primo giorno di saldi. Kitsch è anche l’impulso indiscriminato a fotografare: Instagram istiga tutti a riprendere qualunque cosa, facendo credere a tutti che qualunque cosa oggetto delle loro foto sia interessante. Ma solo Instagram sa che questa invasione fotografica del mondo, con questa produzione illimitata di appunti sulla realtà, omologa tutto: lo sa perché da questa proliferazione di immagini ci guadagna.

La forza di Instagram è nel far credere che si possano conservare momenti che il normale fluire del tempo sostituisce velocemente, che si possano condividere emozioni che la condivisione rende irrimediabilmente fasulle, che mettere “Mi piace” su una foto sia un modo di accreditarsi verso persone e ambienti che nella realtà restano chiusi e impenetrabili. La debolezza di noi utenti è di non sapere, o di sottovalutare, che ogni social network è un’impresa che fa profitti e che la merce in vendita sugli schermi dei nostri smartphone siamo noi.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Le donne di successo sono definite sempre per il loro genere

Il gender gap priva le giovani di modelli di riferimento sui testi scolastici. Così quelle che ce la fanno diventano dei simboli. Sarebbe bello che non fosse più così.

«Quando sono arrivata da Dior, nessuno si domandava se avessi talento o meno. Tutti però osservavano come fossi la prima donna nominata alla direzione creativa della maison». A dire il vero lo hanno anche scritto. In tanti. Una volta ce lo disse perfino il tassista che ci accompagnava alla sfilata, aggiungendovi una punta di derisione sciovinista: «Ah, chez Dior, on avait juste besoin d’une italienne, et une femme en plus». Non abbiamo di certo mai mancato di scrivere quel che pensassimo di ogni singola collezione di Maria Grazia Chiuri, che è una manager di grande successo nonostante talvolta ci sembri che vada un po’ troppo per le spicce sull’approfondimento del pensiero creativo, ma quella volta ci accapigliammo con l’autista.

UNA “DOPPIA OFFESA”

La doppia offesa – donna, italiana – era intollerabile a prescindere. Immaginiamo che cosa debbano essere stati quei primi mesi, e che cosa debba essere tuttora, a quasi quattro anni dalla nomina, la vita “chez Dior”, e questo nonostante la grandiosa risposta al suo lavoro in termini di vendita e di notorietà del marchio. Prima di lei, e a dispetto del genio assoluto di John Galliano, Dior era un marchio amato dalle signore, relativamente difficile da portare, complesso da intelligere. Adesso, sono le ragazzine a desiderare ogni singolo abito e accessorio, a sognare Dior per la festa del diciottesimo e per il dono del compleanno, e dunque non possiamo che rallegrarci con il lavoro di Chiuri e con la guida sapientissima della maison da parte di Pietro Beccari.

LA LEZIONE DI CHIURI

Invitata per la lecture di apertura del Master in Science of Fashion dell’Università La Sapienza, di fronte agli studenti internazionali, tantissimi ed entusiasti, che affollavano l’Aula Magna di Lettere, la mattina del 13 dicembre Maria Grazia Chiuri ha parlato a lungo della barriera culturale che, di certo non solo in Italia, prevede ancora che una donna sia giudicata innanzitutto in quanto tale, cioè come portatrice e simbolo di un genere prima che, di un talento o di una professione, portando ad esempio il suo concretissimo e volenteroso contributo a un processo di cambiamento che, siamo oneste, negli ultimi 40 anni non ha fatto grandi passi avanti.

MANCANO MODELLI SUI LIBRI DI SCUOLA

In queste righe abbiamo scritto a lungo, quasi ogni settimana, delle cause di queste difficoltà, additando via via le carenze di testi scolastici che, dalle scuole elementari in poi, portino all’attenzione delle bambine e delle pre-adolescenti esempi di ruolo e modelli ai quali ispirarsi e da cui trarre forza (davvero non è pensabile che, in un panorama foltissimo di intellettuali, le uniche poetesse cinquecentesche segnalate sui testi in adozione presso i licei siano Gaspara Stampa e Veronica Franco, e quest’ultima in particolare con una strizzatina d’occhio nei riguardi della sua posizione di cortigiana), ma anche le cause per così dire endogene. Autoindotte. Il semplice fatto che le donne si mostrino, che ci mostriamo tutte, acquiescenti nei confronti di chi sottolinea che siamo «le prime» a ottenere una certa carica, e grate per averla ottenuta, di solito a carissimo prezzo: direttori creativi di quel mondo molto maschile che è l’alta moda, direttori di quotidiani, amministratori delegati di multinazionali dell’acciaio, presidenti di istituzioni fondamentali per lo sviluppo (Francesca Bria, Fondo Innovazione) o della Corte Costituzionale.

UNA PRESSIONE IN PIÙ

Ci ha colpito molto la gaffe emotiva di una donna pure fortissima come Marta Cartabia che, al momento della nomina alla massima carica giuridica nazionale, ha dichiarato di aver «rotto il vetro di cristallo»: nel piccolo qui pro quo mostrava non solo di sentire il peso del proprio ruolo, ma anche il suo portato simbolico: non era solo «il nuovo presidente della Corte Costituzionale». Era «la prima donna» ad esserlo diventato. Che è risultato importante, importantissimo. Ma lo sarà ancora di più quando non dovremo usare il marker del genere per festeggiarlo.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Il racconto della vita quotidiana stravolta da Piazza Fontana

Milano piena di operaie che chiedevano pari trattamento economico con gli uomini. All'insegna dello slogan Anni 70 «riprendiamoci la vita». Un fumetto della Bonelli scritto da Manfredi ripercorre il contesto sociale in cui scoppiò la bomba. Libri, musica, teatro e cinema: la strage nella cultura italiana.

A 50 anni di distanza, la strage di Piazza Fontana diventa un fumetto della Bonelli. Milano, 12 dicembre è il titolo: copertina e disegni sono di Roberto Rinaldi, soggetto e sceneggiatura di Gianfranco Manfredi.

STORIA INSERITA DENTRO “CANI SCIOLTI”

Già cantautore e scrittore, Manfredi si è poi segnalato soprattutto come autore per la Bonelli, per cui oltre a storie di Tex e Dylan Dog ha realizzato varie serie autonome: il western horror Magico Vento: Volto Nascosto, che è ambientata attorno alla battaglia di Adua e ha un seguito in Shangai Devil, durante la Rivolta dei Boxers; Adam Wild, che si svolge nell’Africa coloniale; e appunto Cani sciolti, in cui si inserisce questa storia.

TRA OCCUPAZIONI UNIVERSITARIE E UTOPIE

«Cani sciolti si svolge dal 1968 al 1989: dalla contestazione alla caduta del Muro di Berlino», spiega a Lettera43.it. «Protagonisti sono un gruppo di ragazzi attorno ai 20 anni che si conosco durante le occupazioni universitarie a Milano. Mostra la loro crescita, anche contrapponendo il come erano al come sono diventati. È un intervallo non casuale, perché la generazione dei baby boomer è cresciuta nell’epoca della Guerra fredda, e bene o male la caduta dei muri ha segnato la fine dei blocchi e una certa compiutezza nella loro esperienza, anche se la caduta del Muro di Berlino non ha certo realizzato loro utopie. Non è che il mondo venuto dopo sia assomigliato in maniera particolare a Imagine di John Lennon».

La copertina di “Cani sciolti”.

DOMANDA. Questo numero come mette i Cani sciolti a confronto con la Strage di Piazza Fontana?
RISPOSTA. Si tratta di una esperienza tra le più scioccanti vissuta nella storia di Milano. Siccome ovviamente avevo previsto che sarebbero usciti molti libri di rievocazione politica dell’evento, ho voluto invece trattarlo dal punto di vista della vita quotidiana.

In che modo?
Ho raccolto oltre a ricordi personali anche ricordi di amici, cui ho chiesto dove erano e cosa facevano quando è scoppiata la bomba. Quindi molti spunti finiti nella storia sono autentici.

Per esempio?
Alla casa discografica e musicale Ricordi, che è in Via Berchet a due passi da piazza Fontana, quando è scoppiata la bomba era in corso una riunione per decidere sulla partecipazione di Bobby Solo al Festivalbar. Lo scoppio fece uscire tutti fuori a vedere cosa era successo, e quindi mi hanno raccontato lo spaesamento del passare da un appuntamento di lavoro che sembrava divenuto improvvisamente futile a qualcosa che in quel momento era sconvolgente e inimmaginabile.

Quindi un fumetto per ricollocare Piazza Fontana nel suo contesto?
L’impatto che questo evento ha avuto sulla vita quotidiana, ma anche il periodo che lo aveva preceduto. Quando si seguono le piste complottistiche e spionistiche si tende un po’ a smarrire il contesto sociale di quella che era stata l’ultima grande agitazione operaia della storia italiana.

Cosa stava succedendo?
A Milano l’autunno caldo era stato vissuto in modo molto particolare perché, come racconto appunto nel fumetto, la città era piena di fabbriche a prevalenza femminile. Quindi le manifestazioni di donne erano continue: non solo le operaie, ma anche le infermiere della clinica Melloni, le portinaie, le sarte di Via Montenapoleone, le donne dell’editoria che chiedevano pari trattamento economico con gli uomini perché non facevano più semplicemente le segretarie.

E gli operai uomini?
Le loro rivendicazioni erano prevalentemente salariali e contrattuali, le lotte delle lavoratrici si aprivano ad altri campi come i servizi in città, le case, la vivibilità. Si annunciano tutta una serie di tematiche che poi percorreranno gli Anni 70 all’insegna dello slogan «riprendiamoci la vita».

Ipotesi?
Era evidente che quella forzatura violenta era dovuta da una parte a dinamiche che riguardavano il Mediterraneo. Con regimi autoritari di destra al potere in Grecia, in Spagna e in Portogallo, l’Italia era rimasta l’unico Paese democratico dell’area. Allo stesso tempo le lotte avevano suscitato una spinta di reazione autoritaria. Quella di Piazza Fontana fu la prima, ma poi di bombe nella storia italiana ce ne sono state per anni e anni, e ancora aspettiamo l’individuazione dei responsabili.

Cos’è rimasto?
Possono cambiare governi di ogni tipo, si può fare la Terza Repubblica, possono arrivare quelli che dicono «cambiamo tutto, facciamo una nuova classe politica», ma ancora oggi appurare cosa è successo, chi ha messo le bombe, chi ha pagato, chi ha ordito, nomi e cognomi, resta un grido inascoltato dei parenti delle vittime e della società civile.

Se ne parla nel fumetto?
Non ho voluto fare il giornalista detective o cose del genere, per non infognarmi in qualche deriva complottista. Ho voluto però dare alcune indicazioni soprattutto fondate sulla base del famoso libro che uscì a caldo: La strage di Stato. Fu opera di un team di giornalisti rimasti poi anonimi: per autoprotezione, perché non era facile esprimersi nell’Italia di quel periodo.

Cosa diceva?
Si basava molto su documenti già pubblicati prima dell’estate su giornali inglesi, tra cui l’Observer. Sostenevano che era in atto una grossa provocazione in Italia, sulla base di documenti provenienti evidentemente dai Servizi britannici, che non gradivamo una eccessiva preponderanza degli Stati Uniti nel Mediterraneo.

Altre opere da ricordare su Piazza Fontana?
Il Corriere della Sera ha ora pubblicato un libro: La strage di Piazza Fontana. Ma penso che sarebbe stato corretto fare autocritica ricordando il comportamento tenuto dal giornale a quell’epoca, con Valpreda coperto di fango e descritto come una sorta di Charles Manson italiano. Invece da quella storia vennero varie opere di intellettuali non conformi, che la affrontarono con più coraggio dei giornali.

Tipo?
In teatro su Pinelli Dario Fo fece Morte accidentale di un anarchico. Non parlavano direttamente di Pinelli e Valpreda ma erano evidentemente ispirati a quello che si era visto film come Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo o Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio.

Altro?
Anche Pier Paolo Pasolini dedicò al 12 dicembre un documentario, che però hanno visto in pochi. Lo stesso Pasolini, consigliato da avvocati che temevano conseguenze in tribunale, lo firmò come anonimo. Comunque vi si faceva una lettura del silenzio dei milanesi in chiave quasi di omertà che era completamente sbagliato: era un silenzio di indignazione, non di connivenza mafiosa.

LA STRAGE NELLA CULTURA ITALIANA

Ma sulla strage di Piazza Fontana l’arte e la cultura negli anni è tornata diverse volte.

LIBRI

Wikipedia cita in bibliografia 40 libri, 17 sentenze e sette trasmissioni televisive. Tra i libri usciti o riusciti in occasione di questo 50esimo anniversario ci sono innanzitutto La strage. Il romanzo di piazza Fontana di Vito Bruschini (Newton Compton), che è l’unico di genere narrativo. Di genere saggistico sono invece Piazza Fontana: 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta di Giorgio Boatti (Einaudi), La strage di piazza Fontana di Saverio Ferrari (Red Star Press), Cronache autoptiche. La strage di Piazza Fontana attraverso i verbali necroscopici dell’Istituto di Medicina Legale di Milano di Umberto Genovese, Michelangelo Casali e Sara Del Sordo (Maggioli), La strage degli innocenti di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin (Feltrinelli), La maledizione di Piazza Fontana. L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati di Guido Salvini e Andrea Sceresini (Chiarelettere), Piazza Fontana. Per chi non c’era. Cosa c’è da sapere su una pagina decisiva della nostra storia di Mario Consani (Nutrimenti), Piazza Fontana di Carlo Lucarelli (Einaudi), Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie), La bomba: Cinquant’anni di Piazza Fontana di Enrico Deaglio (Feltrinelli).

MUSICA

La Ballata del Pinelli, composta al funerale, è l’ultima traccia di un famoso doppio del Canzoniere Internazionale del 1973 dedicato a un’antologia della canzone anarchica in Italia. L’anno prima Enzo Jannacci aveva raccontato la storia di una ragazza morta a piazza Fontana in Una tristezza che si chiamasse Maddalena. E nel 1975 una canzone dedicata a Piazza Fontana è incisa dal gruppo Yu Kung, pioniere del Folk Rock in Italia. Altre canzoni invece si limitano a citazioni. “Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre”. Francesco De Gregori in Viva l’Italia. “Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera”: Giorgio Gaber in Qualcuno era comunista. “Agosto. Che caldo, che fumo, che odore di brace / Non ci vuole molto a capire che è stata una strage,/ Non ci vuole molto a capire che niente, niente è cambiato/da quel quarto piano in questura, da quella finestra./ Un treno è saltato”: Claudio Lolli in Agosto. “Con il cuore in quella piazza / tiene a mente Piazza Fontana: I Litfiba in Il Vento. “E non fu solo un sogno e non ci credemmo poco / mettere il mondo a ferro e fuoco, / mentre un’altra stagione già suonava la campana / il primo rintocco fu a piazza Fontana”: Vittorio Sanzotta in Novecento.

TEATRO

A parte la Morte accidentale di un anarchico realizzata da Dario Fo nel 1970 e dedicata alla morte di Giuseppe Pinelli, al 2009 risale Piazza Fontana, il giorno dell’innocenza perduta di Daniele Biacchessi, “spettacolo di teatro civile” realizzato per il quarantennale.

CINEMA

Risale al 1972 La pista nera, documentario di Giuseppe Ferrara. Nel 2012 da Il segreto di piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli, Marco Tullio Giordana ha tratto Romanzo di una strage, che è l’unico vero film sulla vicenda. 12/12 – Piazza Fontana, realizzato da Matteo Bennati e Maurizio Scarcella nel 2019, è infatti pure un documentario.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Ritrovato quadro a Piacenza: potrebbe essere il Klimt rubato nel 1997

La tela è stata rinvenuta nell'intercapedine di una parete della Galleria d'arte moderna Ricci Oddi. L'ipotesi è che si tratti di "Ritratto di Signora", e che i ladri non l'abbiano mai recuperata.

Potrebbe essere stato ritrovato il dipinto di Gustav Klimt Ritratto di Signora rubato nel 1997 alla Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza. Durante i lavori di ripulitura di un’edera che copriva una parete esterna della stessa Galleria, si è scoperta un’intercapedine chiusa da uno sportello, all’interno della quale c’era un sacco, con dentro il quadro. Una prima expertise, a quanto si apprende, avrebbe confermato che si tratta dell’opera rubata, una delle più ricercate al mondo. Sono in corso ulteriori analisi per certificarne l’autenticità.

L’incredibile ipotesi alla quale stanno lavorando gli inquirenti è quindi che la tela non si sia mai mossa dal suo luogo di appartenenza. Il primo obiettivo sarà quello di confermare la veridicità della tela, ma il direttore della galleria piacentina Massimo Ferrari ha anticipato alla Libertà che «i timbri e la ceralacca sono originali». I ladri potrebbero aver nascosto il quadro nell’intercapedine sul muro esterno per poi recuperarlo qualche giorno dopo. Poi, però, forse anche per l’attenzione mediatica e la sorveglianza delle forze dell’ordine, non ci sono riusciti. Il quadro, insomma, una delle opere d’arte più ricercate del mondo, potrebbe essere stato nascosto per 22 anni sul muro esterno della galleria dove era stato rubato, senza che nessuno lo trovasse e senza che nessuno che era a conoscenza del nascondiglio andasse a prenderselo.

Il furto, o presunto tale, venne scoperto il 22 febbraio 1997. L’opera sparì in un uno dei tre giorni precedenti. La scoperta fu tardiva a causa di un trasloco di questa e altre nella vicina piazza Cavalli per una mostra su Klimt a Palazzo Gotico. Da subito apparvero moltissime le zone d’ombra: non fu mai chiaro se il capolavoro venne fatto uscire dal tetto (la cornice venne trovata vicino al lucernario) o se i ladri passarono dall’ingresso principale. Le indagini dei carabinieri del Reparto operativo di Piacenza portarono a indagare sui custodi della galleria, la cui posizione venne però ben presto archiviata dal gip per mancanza di prove. Nel 2016 l’inchiesta venne riaperta dopo il ritrovamento di tracce del Dna di uno dei ladri sulla cornice. Una testimonianza parlò addirittura di una pista esoterica, secondo la quale sarebbe stato utilizzato per un rito satanico.

Il capolavoro fa parte di un gruppo di ritratti femminili fatti da Klimt negli ultimi anni della sua attività (tra il 1916 e il 1918), alcuni dei quali rimasti incompiuti. Il quadro porta con sé un’altra storia: è stato dipinto sopra un altro ritratto di donna con un cappello, esposto a Dresda nel 1912, poi dato per disperso. In realtà il maestro austriaco lo aveva ritoccato trasformandolo nel quadro sparito a Piacenza nel 1997.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Alle radici della banana di Maurizio Cattelan

I richiami al Ready-Made di Duchamp. Gli incroci e le contaminazioni con dadaismo e spazialismo. Storia e significato delle opere dell'artista italiano.

La banana di Maurizio Cattelan affonda le radici in una ruota di bicicletta e in uno scolabottiglie. Centosei anni fa, nel 1913, con la “Ruota di bicicletta” Marcel Duchamp diede inizio all’arte Ready-Made: un tipo di arte in cui l’artista si appropria di un oggetto già disponibile sul mercato, trasformandolo in opera d’arte con la sua firma. Molti storici dell’arte ritengono però che non si trattasse di Ready-Made puro, dal momento che c’era stata manipolazione. Quella ruota, del diametro di 63,8 cm, era stata stata tolta dal mezzo cui era appartenuta e montata su uno sgabello in legno verniciato attraverso le forcelle del telaio. Un “esperimento personale” realizzato a New York, e interpretato come una parodia delle statue classiche. Così anche Cattelan ha preso una banana, l’ha attaccata a un muro con uno spesso nastro adesivo grigio e la ha esposta alla fiera d’arte contemporanea Art Basel Miami col titolo di “Commediante”, vendendola per 120 mila dollari.

L’OGGETTO COMUNE DIVENTA ARTE

La “Ruota di bicicletta”, dunque, sarebbe una premessa allo “Scolabottiglie” del 1914, sempre di Duchamp. L’artista nativo di Blainville-Crevon, in Francia, lo comprò in un negozio. Poi andò negli Stati Uniti e nel 1915 la sorella lo buttò, facendo pulizia nel suo studio. Lui allora, semplicemente, ne comprò un altro. Allo stesso modo, anche la banana originale è stata distrutta. In questo caso non per ignoranza dell’arte, ma come contro-esibizione artistica di David Datuna, che si è fatto filmare. “Artista Affamato”, sarebbe il titolo dell’arte che ha distrutto l’arte. Subito la banana è stata sostituita con un’altra. A trasformare l’oggetto comune in arte è la firma: in questo caso, assieme a un certificato di autenticità, che autorizza l’acquirente al “ricambio” del frutto, quando questo marcisce.

LA “FONTANA” DI DUCHAMP E “AMERICA” DI CATTELAN

A un secolo di distanza, Duchamp dà la mano a Cattelan anche attraverso la parentela che c’è la tra la funzione originale della “Fontana” e di “America”. La prima (Duchamp, 1917) è un orinatoio rovesciato. Come lo Scolabottiglie è stato visto come simbolo alchemico di un albero. La “Fontana” rappresenterebbe l’utero femminile. Non a caso Duchamp l’ha firmata con lo pseudonimo “R.Mutt”, che traslitterato evoca il sostantivo tedesco Mutt(e)R, ossia Madre. Altri pensano invece a un francese muter: cambiare, defunzionalizzare e rifunzionalizzare appunto. Quasi un secolo dopo, “America” (Cattelan, 2016), un gabinetto di oro massiccio. Realizzato da una fonderia di Firenze e collocato in un bagno del Solomon R. Guggenheim Museum per essere utilizzato dai visitatori, è stato rubato il 14 settembre mentre era esposto nel Regno Unito in quel Blenheim Palace dove nacque Winston Churchill.

LA STOCCATA DI MANZONI ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI

In questo gioco di rimandi, orinatoi e gabinetti evocano la “Merda d’Artista” realizzata il 21 maggio 1961 da Piero Manzoni. Che non è tecnicamente Ready-Made. Primo, perché non c’è acquisto dell’oggetto. Secondo, perché con l’inscatolamento c’è stata una manipolazione. Analoga è però la provocazione, con l’etichetta-certificato di autenticità, in varie lingue. “Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”, è la versione in italiano. E sulla parte superiore è apposto un numero progressivo da 1 a 90, insieme alla firma dell’artista. Il prezzo corrispondente a 30 grammi di oro rappresentava una satira del modo in cui la società dei consumi può far diventare di valore qualunque cosa. Ma in effetti i 220 mila euro cui il barattolo 69 è arrivato il 6 dicembre 2016 in un’asta a Milano vanno ben oltre questo stesso sberleffo. Un amico di Manzoni ha garantito che in realtà dentro c’è solo gesso. Ma nessuno si è mai azzardato a verificare.

GLI INCROCI CON DADAISMO E WHITE PAINTING

Duchamp è stato spesso accostato al dadaismo, ma essendo quel movimento nato nel 1916 ne sarebbe piuttosto un anticipatore. Un dadaista doc come Man Ray nel 1921 realizzò un famoso Ready-Made: “Il dono”, un ferro da stiro con 14 chiodi a testa piatta incollati alla suola. Non solo. Dopo aver realizzato la “Fontana” Duchamp andò per due anni in Argentina. Terra natale di Lucio Fontana, il cui movimento spazialista realizzava un’operazione dalla portata provocatoria parallela al Ready-Made, anche se di tipo diverso. Fontana, infatti, non si affidava a oggetti comuni, ma tornava alla tela dei pittori. Solo che invece di dipingerla la fendeva con coltelli, rasoi e seghe: i suoi famosi “Concetti spaziali”. Più radicale ancora, il White painting neanche dipinge, ma lascia la tela in bianco. Dal “Bianco su Bianco” realizzato nel 1918 dal russo Kazimir Malevich ai “Dipinti Bianchi” fatti dall’americano Robert Rauchsenber nel 1951, l’artista scompare per spiegare che l’arte non deve per forza indicare qualcos’altro. Come spiegava Frank Stella, «quel che vedi è quel che vedi».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

La Prima della Scala ci insegna l’uso metalinguistico di Instagram

In platea, Durante l'esecuzione della Tosca, fiorivano gli spettatori col cellulare in mano. Una rappresentazione di come i social abbiano vinto sulla nostra percezione del reale.

Assistito al Terzo Atto della Tosca dall’ingresso della platea con il cappotto sul braccio, fra i cani sciolti, quelli che si erano attardati a fumare in piazza e le poverette che non avrebbero potuto fare altrimenti perché indossavano un vestito da fatina con le lucine di Natale incorporate accese e che dunque non avrebbero potuto sedersi in platea (ci siamo informate, si chiama Dvora, a Milano fa l’estetista-con-punturine, ogni anno si presenta con qualche obbrobrio addosso scatenando l’eccitazione dei fotografi e confermando così l’idea che la Prima della Scala sia un posto di sciroccate a cui nulla interessa della musica), ci siamo accorte che nessuno spegneva il cellulare.

Gli applausi per l’arrivo del presidente Sergio Mattarella.

LA CORSA AI SOCIAL DURANTE LA PRIMA

Tutti, invece, controllavano non solo i messaggi, ma anche i social. I social. Ma che cosa c’era di così impellente da controllare su Instagram, Twitter e Facebook mentre ci si trovava all’evento culturale-mondano più atteso dell’anno e sarebbe stato lecito goderselo senza pensieri? Visto che siamo curiose per natura e per mestiere, e in più eravamo seccatissime perché invece a noi quel terzo atto piace molto, volevamo godercelo anche da quella posizione precaria e aspettavamo con trepidazione “e lucevan le stelle” (purtroppo svanì anche il sogno nostro di ascoltarla cantata come si deve, Francesco Meli è un Mario Cavaradossi troppo tiepido), dopo aver segnalato ai vicini che le lucette dell’estetista, ora arrivata proprio lì accanto a noi a ridacchiare, fornivano un’illuminazione più che sufficiente per disturbare lo spettacolo, abbiamo buttato un occhio sulle schermate dei vicini più prossimi.

COME INSTAGRAM VINCE SULLA PERCEZIONE DEL REALE

Controllavano chi fosse stato ritratto, fotografato, segnalato alla Scala, cioè il luogo dove si trovavano in quel preciso momento. Ci siamo messe a sorridere anche noi, soddisfatte. Non dovevamo irritarci, ma rallegrarci, perché finalmente, dopo anni di teorie, stavamo assistendo alla perfetta mise en abyme delle potenzialità non social ma sociologiche di Instagram, alla sua vittoria sulla nostra percezione del reale. Instagram come volontà e rappresentazione, l’abisso della differipetizione, come certe fotografie di Man Ray in cui l’immagine si ripete ossessivamente, sempre più in piccolo, all’interno della prima. Lo scopo di quell’affannosa ricerca collettiva era il controllo ansioso di chi si trovasse lì con noi dei ricchi-e-famosi, se si fosse perso qualche volto e qualche immagine importante fra i tanti presenti (ci spiace per il ministro Provenzano che ha innescato l’inutile polemica contro Milano-asso-piglia-tutto-d’Italia: il 7 dicembre non mancava nessuno dei potenti di oggi e anche di ieri, vedi il povero Angelino Alfano al cui passaggio non scattano più i flash), e se ci si potesse vantare di qualcosa con gli amici, suscitare qualche commento desioso e invidioso, trarne vantaggio, schermirsi.

LA SFILATA DEI POTENTI TRA GAFFE ED ELEGANZA

Quanto a lungo hanno parlato il candidato alla presidenza di Confindustria Carlo Bonomi e Diana Bracco? Quanto era divertente vedere i cronisti incerti fra Alexander Pereira, sovrintendente uscente, e Dominique Meyer, entrante e già sostanzialmente insediato? Quanto erano davvero gentili gli scambi di cortesie fra Lella Curiel e il costumista di Tosca, Gianluca Falaschi («signora, lei ci ha insegnato l’eleganza», «ma no, bravo davvero lei, complimenti»)? E poi. Il viceministro agli Esteri Ivan Scalfarotto era davvero l’unico accompagnatore di Maria Elena Boschi, star della serata in abito-smoking di velluto nero, sottile, elegante e understated come una milanese (quanta strada ha percorso, da quel provincialissimo tailleur bluette del primo giuramento nel governo Renzi)? E com’era possibile che sessant’anni di comunismo non avessero insegnato ai ricchi ospiti cinesi dei Dolce&Gabbana che è semplicemente atroce vedere una donna farsi reggere lo strascico da una cameriera come la Liù di Turandot (e non vogliamo nemmeno commentare la cafoneria di un abito da ballo a teatro).

Ivan Scalfarotto e Maria Elena Boschi alla Prima (Foto LaPresse)

IL FILTRO DI INSTAGRAM CHE ESALTA L’INDIVIDUALISMO DI MASSA

Insomma, a tutto questo Instagram e i social servivano alla Prima, a dimostrazione che il nuovo saggio di Paolo Landi, Instagram al tramonto, a cui accennavamo la scorsa settimana, è davvero il libro del momento: la rappresentazione del nuovo mondo dell’individualismo di massa, il mondo in cui ci crediamo unici spettatori di uno spettacolo condiviso, il mondo a cui riconosciamo importanza solo attraverso il piccolo schermo del nostro smartphone. Un piccolo schermo che ci valorizza e al tempo stesso ci difende: nulla di male può davvero accaderci attraverso la distanza dell’obiettivo, a nulla possiamo credere davvero e fino in fondo, nulla ci tocca. Ed ecco, dunque, ripresa la Prima della Scala, ma anche e purtroppo tante atrocità. Il mondo reale e filtrato al tempo stesso, in cui ci pare di vivere il doppio, e che invece ci allontana sempre di più dalla realtà.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Record in tv per la Tosca: oltre 2,85 milioni di spettatori

Boom di spettatori per la Prima della Scala. Battuto il record di Madama Butterfly di tre anni fa. Share oltre il 15%.

Tosca è la Prima della Scala in assoluto più vista in tv: il 7 dicembre la diretta su Rai1, curata da Rai cultura, è stata infatti vista da una media di 2 milioni 850 mila spettatori con uno share del 15%. Circa ottocentomila in più dell’Attila di Verdi dello scorso anno e anche della Madama Butterfly (finora record) di tre anni fa che fu vista da 2 milioni 644 mila persone. Anche la presentazione dell’opera prima dell’inizio ha fatto un risultato di tutto rispetto con 1 milione 947 mila spettatori e uno share del 14,2%, ben più del programma precedente.

L’ORGOGLIO DI RAI CULTURA

Il risultato di Tosca, ha spiegato la Rai in una nota, è stato «il record assoluto di ascolti per un’opera lirica in tv da quando esiste l’Auditel». L’azienda di Viale Mazzini ha parlato di «un motivo di grande orgoglio» tanto che il direttore di Rai Cultura Silvia Calandrelli, ha parlato di orgoglio «per tutti coloro i quali hanno contribuito, nello spirito del vero servizio pubblico, a portare nelle case degli italiani il capolavoro di Puccini». «Nel corso della stagione Rai Cultura riprenderà e trasmetterà altre tre opere e un balletto della Scala, così come saremo accanto a molte altre realtà musicali per continuare a diffondere la bellezza della grande musica», ha aggiunto Calandrelli.

FOA: «GRANDE SUCCESSO PER IL NOSTRO PAESE»

Impettito anche il presidente della Rai, Marcello Foa: «Sono felice per lo straordinario risultato di ascolto: con quasi 3 milioni di spettatori è il record per una Prima della Scala. Mi congratulo con Rai Cultura, con Rai1 e con il centro di produzione Rai di Milano. La Prima della Scala viene vista in queste ore in tutto il mondo. Si tratta di un grande successo per il nostro Paese». «La Rai», ha concluso Foa, «è orgogliosa di contribuire a promuovere in Italia e nel mondo l’eccellenza della cultura, della creatività e della tecnologia italiane».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Tosca, un kolossal dal retrogusto kitsch

Il maestro Chailly si conferma pucciniano di alto livello. I cantanti non deludono e il regista Livermore regala meraviglie sul palcoscenico. Scivolando talvolta ai confini del kitsch e dell'eccesso. In tivù buone scelte narrative, e qualche occasione (ancora) persa.

Nel luglio del 1992 RaiUno mandò in onda un progetto mai prima tentato: un live film diretto da Giuseppe Patroni Griffi intitolato Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca. In pratica, un film-opera (Placido Domingo, Ruggero Raimondi e Catherine Malfitano diretti da Zubin Mehta) che si svolgeva in presa diretta a Sant’Andrea della Valle, a Palazzo Farnese e sulla sommità di Castel Sant’Angelo (in complessa sincronia con l’orchestra posizionata in studio), rispettando la tempistica di Puccini: primo atto a mezzogiorno, secondo in serata, terzo all’alba del giorno dopo. 

LEGGI ANCHE:Tosca, una porta sull’oscurità umana

IL RACCONTO DAI LUOGHI REALI DELLA TOSCA

Evidentemente qualcuno in Rai nelle settimane scorse si è ricordato di quel suggestivo esperimento e ne ha tratto lo spunto per il modo in cui è stata raccontata la trama di Tosca nel corso della diretta dalla Scala. Le incursioni dell’attore Francesco Montanari sui luoghi reali del melodramma hanno costituito un buon esempio di tivù: si è offerta una chiave di lettura efficace, sulle suggestioni delle immagini e della parole, per quanto di lì a poco si sarebbe visto sul palcoscenico della Scala.

Una scena di Tosca (Ansa).

ALCUNE OCCASIONI PERSE

Naturalmente la soluzione è stata permessa dal particolare congegno drammatico e “topografico” e monumentale del libretto ed è sostanzialmente irripetibile in qualsiasi altra opera, o quasi. Ma è giusto sottolineare che almeno quest’occasione è stata colta. Molte altre come da tradizione sono state perse, nei lunghi intervalli da riempire di parole e volti. Così capita quando la televisione si avvicina a quell’oggetto considerato misterioso che si chiama melodramma: per semplificare a tutti i costi si finisce per fare un pessimo servizio alla musica e una mediocre tivù.

Bruno Vespa e signora alla Prima della Scala (Ansa).

Si tratta della possibilità di parlare di opera in maniera divulgativa e chiara, di evitare l’aneddotica stantia e di dubbia precisione, di portare davanti alle telecamere gli addetti ai lavori, visto che dei giudizi invariabilmente esaltanti di “appassionati” come l’onnipresente Bruno Vespa si poteva fare tranquillamente a meno e che una vecchia gloria come Raina Kabaivanska andava ben altrimenti valorizzata. Per non parlare dello psichiatra Vittorino Andreoli, che si è lanciato in citazioni “a orecchio” dell’epistolario pucciniano. Tant’è, la critica musicale in Italia è ormai rinchiusa in una riserva e gli eventi mediatici e culturali come l’inaugurazione della Scala la vedono ancor più ai margini, sconfitta dall’elogio acritico e dall’entusiasmo che profuma di marketing. 

LA TRANSIZIONE DELLA SCALA SENZA UN SOVRINTENDENTE

Nella sfilata dei personaggi, molto evidente l’assenza di Alexander Pereira, il sovrintendente giubilato la scorsa estate dal sindaco Beppe Sala fra molte polemiche e ancora formalmente in carica per una settimana, visto che si insedierà al Maggio Fiorentino il prossimo 15 dicembre.  Questo spettacolo è anche farina del suo sacco, ma naturalmente si è preferito sorvolare. Così come, per una sorta di par condicio, non si è ritenuto di dare il minimo spazio al suo successore, Dominique Meyer, che da metà dicembre sarà interpellabile per i “casi di emergenza” ma entrerà in carica solo il primo marzo dell’anno prossimo.

Attilio Fontana, Chiara Bazoli, Beppe Sala e e Alexander Pereira (Ansa).

La Scala si trova in una situazione di transizione non semplice, e magari si poteva illustrarla brevemente al grande pubblico di RaiUno. Semplicemente a titolo di cronaca: per far capire che l’inaugurazione di stagione di uno dei maggiori teatri lirici del mondo senza un sovrintendente alla guida non è esattamente la norma. 

LA COMPAGNIA DI CANTO HA MANTENUTO LE PROMESSE

Quanto al merito di quel che si è visto e sentito, la compagnia di canto era di indiscutibile livello e ha mantenuto tutte le promesse. Anna Netrebko è stata una Tosca imperiosa e capace di passare dal dramma all’elegia con la duttilità della fuoriclasse; Francesco Meli ha dato a Cavaradossi una sofferta intensità che si è mantenuta impeccabilmente al di qua delle esagerazioni veristiche; Luca Salsi ha fatto valere la sontuosa qualità di una voce magnificamente timbrata, eguale e scorrevole, capace di tutte le accentuazioni e le sottolineature che il monumentale ruolo del malvagio Scarpia esige.

Il soprano Anna Netrebko (Ansa).

Sul piano scenico e attoriale, però, l’alterigia sprezzante, l’arroganza del potere e la perversione del sadismo fatto musica e canto si sono colte solo a intermittenza. D’altra parte, se per gran parte del cruciale secondo atto il regista mette il cattivissimo in maniche di camicia e bretelle, non è facile.

CHAILLY, PUCCINIANO DI LIVELLO

Dal podio, Chailly ha per così dire “siglato” l’inaugurazione riesumando meno di un minuto di musica nel finale ultimo, che lo stesso autore aveva in seguito tagliato. Una scelta interessante, che giunge alla fine di un’interpretazione densa e profonda, con la quale il direttore ha confermato la sua fama di “pucciniano” di altissimo livello, misurando la sostanza sinfonica della partitura senza inutile enfasi ma con viva forza emotiva, rispettando e anzi sottolineando la multiforme natura del canto in quest’opera. 

UN KOLOSSAL CON QUALCHE SCIVOLONE AI CONFINI DEL KITSCH

Quanto allo spettacolo firmato dal brillante e talentuoso Davide Livermore, dato atto alla regia televisiva di una “neutralità” altre volte molto meno chiara, che ha permesso di apprezzare in naturalezza le soluzioni sceniche, si è visto un vero e proprio kolossal, autentico trionfo delle meraviglie tecniche del palcoscenico della Scala. Piattaforme rotanti, piani di azione sfalsati che si alzano e si abbassano, un continuo apparire e scomparire di elementi scenici, che così determinano il mutare delle ambientazioni: Livermore l’aveva promesso è ha mantenuto la parola, la sua Tosca è una vera e propria motion picture, che strizza l’occhio al coevo cinema degli albori non solo nella natura delle immagini in movimento ma anche nella recitazione un po’ sopra le righe, accentuata.

Il cast della Tosca (Ansa).

Poi, in qualche occasione il gioco prende la mano al regista: animare un dipinto facendo esprimere commozione ai personaggi che vi sono rappresentati, mentre Tosca sta cantando Vissi d’arte, è una soluzione buona per Harry Potter. Mentre al grand-guignol appartiene la scena dell’uccisione di Scarpia: non una ma tre pugnalate più strangolamento, schizzi di sangue sulla veste della protagonista. Invece, è un piccolo colpo di genio la trasformazione della tradizionale lugubre scena in cui Tosca apparecchia il catafalco di Scarpia in una sorta di sdoppiamento psichico: la protagonista si vede accanto al cadavere dell’uomo che ha tentato di violentarla fisicamente e lo ha fatto psicologicamente. L’ultimo colpo di scena è nel finale tragico: Tosca vola sì da Castel Sant’Angelo, ma la sua è una specie di assunzione in cielo, tra fasci di luce. Una scelta ai confini del kitsch

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

La Prima della Scala tra vip e politici

Quindici minuti di applausi per Tosca, sebbene l'allestimento non abbia convinto tutti. Ovazione per il presidente Sergio Mattarella. Tra i presenti Boschi con Scalfarotto, Bazoli versione D'Artagnan, Patti Smith.

La Tosca di Davide Livermore con la direzione del maestro Riccardo Chailly alla fine ha convinto incassando almeno 15 minuti di applausi. Al termine dell’omaggio alla compagnia di canto, alcuni spettatori si sono voltati verso il palco d’onore gridando «Presidente grazie», ed è così partito un nuovo applauso rivolto al Capo dello Stato, Sergio Mattarella dopo l’ovazione che lo aveva accolto al suo arrivo con la figlia Laura.

A dargli il benvenuto, fra gli altri, il governatore Attilio Fontana, il sindaco Giuseppe Sala, il sovrintendente a fine mandato Alexander Pereira e la senatrice a vita Liliana Segre. Poco prima del Capo dello Stato erano arrivati la presidente del Senato Maria Alberti Casellati e il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il titolare dello Sport Vincenzo Spadafora.

La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese con Pereira (Ansa).

UN PUBBLICO ETEROGENEO

Non è mai invece una novità la passerella di politici e vip. Per Italia viva presente Maria Elena Boschi in doppiopetto di velluto nero accompagnata da Ivan Scalfarotto. Il banchiere Giovanni Bazoli invece ha sfoggiato un inedito pezzetto stile D’Artagnan. Mentre l’imprenditore vicino a Casaleggio, Arturo Artom, si dice abbia fatto da padrone di casa. Alla Scala anche Emma Margaglia, Gabriele Galateri di Genola con la moglie Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio di Torino e consigliera Uefa, Corrado Passera e Piercarlo Padoan.

Patty Smith (La presse).

Occhi puntati su Patti Smith. «Tosca è una donna straordinaria, tutta cuore, il suo personaggio mi affascina molto», ha detto. E stupore per la presenza di due star nostrane come Marracash ed Elodie che si sono spartiti i flash con la coppia Claudio Santamaria e Francesca Barra in Armani. Immancabili Carla Fracci e l’étoile Svetlana Zhakarova. A rappresentare il mondo della moda Dolce e Gabbana, soci sostenitori del teatro, dove venerdì hanno presentato la loro alta moda. Nel parterre anche Marco Bizzarri di Gucci in smoking rosso.

CRITICHE PER L’ALLESTIMENTO

Passando all’opera, l’allestimento non sembra aver convinto tutto il pubblico. Se il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora nel foyer alla fine del primo atto lo ha definito «pazzesco», per Carla Fracci è risultato «eccessivo»: «Meravigliosa l’orchestra e i cantanti, ma non troppo i costumi», è stato il suo giudizio. «Tutti quei su e giù mi sono sembrati eccessivi», ha concordato Fedele Confalonieri che ha aggiunto scherzando: «Ma forse è la mia età che mi fa girare la testa». Ha apprezzato molto le macchine sceniche, invece, Milly Carlucci: «È un’opera grandiosa ed emozionante, le macchine danno la sensazione di una grande messinscena».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Tosca, una porta sull’oscurità umana

La storia nell'opera di Puccini che inaugura la stagione della Scala è poco più di un pretesto. In realtà si tratta di un viaggio nelle passioni. Il trionfo dell'artificialità teatrale.

Con la Tosca del 7 dicembre, Davide Livermore entra in un club ristrettissimo, quello dei registi che hanno firmato almeno due inaugurazioni di stagione alla Scala.

Lui peraltro, i suoi due spettacoli di apertura li ha realizzati in rapida successione: l’anno scorso Attila, quest’anno il capolavoro pucciniano, dalla quasi rarità a una delle opere più popolari di sempre.

LIVERMORE OPTERÀ PER UNA NARRAZIONE CINEMATOGRAFICA

Non ci saranno spostamenti di epoca, a differenza di quanto era accaduto con l’opera giovanile di Verdi portata dal V secolo agli anni della Seconda Guerra mondiale. Ma ci sarà un altro tipo di attualizzazione, quella che passa per la scelta di una sorta di narrazione cinematografica, linguaggio con il quale il regista torinese ha già dimostrato di avere efficace dimestichezza. E del resto, la storia di Tosca al cinema è molto lunga e comincia pochi anni dopo il debutto dell’opera.

BARONE SCARPIA, ASSOLUTO PROTAGONISTA

Il più cinematografico dei personaggi è il barone Scarpia, capo della polizia. Quando lo spettatore ne sente parlare per la prima volta – atto I, scena VI – capisce subito, anche se non lo ha ancora visto, che si tratta del vero, assoluto protagonista di Tosca. È Cavaradossi a descriverlo, con versi memorabili: «Scarpia?! Bigotto satiro che affina / colle devote pratiche / la foia libertina / e strumento al lascivo talento / fa il confessore e il boia!».

Maria Callas e Tito Gobbi nella Tosca di Zeffirelli al Covent Garden di Londra (Getty Images).

Ecco già squadernato il nucleo drammaturgico del capolavoro noir di Puccini: brama di sesso e ipocrita devozione sul piano personale, potere (di vita e di morte) e Chiesa alleati contro il vento impetuoso della storia, che soffia dalla Francia napoleonica, sul piano generale.

UN SINISTRO PRODIGIO DI ARMONIA

Mentre riecheggia sinistramente l’inquietante motivo ricorrente di Scarpia (è un semplice prodigio di armonia: tre accordi maggiori perfetti ma di tonalità molto lontane fra loro, soluzione che qualche decennio più tardi sarà fatta propria dalla musica per il cinema e per sempre collegata all’apparizione dei malvagi), gli eventi della fatale giornata-nottata nella Roma del giugno 1800 si avvitano inesorabilmente su queste pulsioni nella cornice di uno storico sfacelo. Il tempo della narrazione e quello della rappresentazione quasi si sovrappongono. Non sopravvivrà nessuno.

LA CORNICE STORICA È SOLO UN PRETESTO

La cornice storica, peraltro, è niente più che un pretesto, nell’opera di Puccini, Illica e Giacosa. E la dimensione politica – in fondo, Cavaradossi diventa un attivista politico quasi per caso – sbiadisce al contatto con la devastante profondità psicologica di un melodramma la cui struttura a duetti è funzionale proprio a questo percorso nella passione, nell’abiezione e nella perdizione.

Maria Callas con il regista Franco Zeffirelli dopo il successo di Tosca al Convent Garden (Getty).

STALKING E VIOLENZA IN SCENA

Al centro, nel secondo atto, naturalmente c’è il terribile confronto fra il sadico Scarpia e la sua vittima predestinata, concupita lungamente e morbosamente: la più lunga, dettagliata, terrificante scena di stalking e di violenza sessuale nella storia dell’opera. Lui vuole a tutti i costi aggiungere la bella “cantatrice” all’elenco delle sue conquiste, ma non vuole il mellifluo consenso, si eccita con la conquista violenta. Del resto, è uno che in chiesa invece di pregare si accende pensando al momento in cui riuscirà a possedere la donna che desidera (atto I, Te Deum). Prima e dopo, sono i due appassionati amanti a costruire il percorso della tragedia e la temperatura emotiva dell’opera. Nel primo atto, amore incrinato dalla gelosia e poi rinsaldato, ma già inquinato da Scarpia, che alla fine potrà cantare: «Va’, Tosca, nel tuo cuor si annida Scarpia». Nel terzo atto, amore illuso e disperato, che viene distrutto e si autodistrugge. Sipario.

UN’OPERA CHE È CONFRONTO DI PSICOLOGIE

Tosca però è ben altro che un feuilleton tutto sangue e violenza, colpi di scena e amori disperati. È soprattutto un gigantesco, drammatico, devastante confronto di psicologie. La violenza è pervasiva, quasi una presenza ossessiva, tanto più lancinante in quanto materialmente il più delle volte resta fuori scena. E dunque, lungi dal rappresentare, come ancora talvolta si sostiene, il punto di maggiore avvicinamento di Puccini alla poetica del Verismo, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento ha avuto in Italia la sua in fondo effimera ma vigorosa stagione, quest’opera costituisce il trionfo di una straordinaria e molto moderna artificialità teatrale.

Una foto di scena di Tosca a La Scala con la direzione di Lorin Mazel e la regia di Luca Ronconi (2006).

Il suo meccanismo drammatico non racconta qualche tranche de vie, possibilmente popolare, con naturalistica evidenza, ma inventa il vero, a partire dal plot creato da Sardou. È un gioco che va molto oltre la ricerca dell’effetto esteriore. La morbosità sadica di Scarpia è meccanismo drammaturgico ma anche struttura psicologica e scandalosa decorazione di gusto ormai prossimo al floreale: così, Tosca non è solo un frutto particolare del Decadentismo, ma realizza una modernità spesso sottovalutata proprio per la perfezione della sua artificialità.

SCELTE ARMONICHE INNOVATIVE E UNA SCRITTURA SONTUOSA

Ne è gran maestro un Puccini mai fino a quel momento così efficace nel costruire una partitura in grado di piegare idee musicali e logiche formali al graticcio letterario. Ciò avviene in virtù di scelte armoniche innovative, di una scrittura orchestrale sontuosa e mai di maniera, fra perorazioni di inedita spettacolarità e dettagli di minuziosa eleganza. Domina nella partitura una magistrale duttilità espressiva, che coinvolge anche la sempre seducente vena melodica del compositore lucchese, ma la riconduce alle esigenze drammaturgiche con straordinaria e a volte perfino ruvida efficacia, grazie alla complessa trama delle reminiscenze motiviche, di cui tutta l’opera è intessuta.

Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924) (Getty Images).

UN ESEMPIO SCINTILLANTE DI TEATRO MUSICALE A OROLOGERIA

Il risultato è un melodramma che sembra ammiccare alla tradizione ma in realtà ne contrae violentemente i presupposti formali ed espressivi e arriva vicino a scardinarli senza però dare mai l’impressione di farlo davvero. Per questo, Tosca può sembrare un ennesimo trionfo della civiltà della Romanza. In realtà non per questo ci commuove e ci impressiona ogni volta, infallibilmente, ma perché è uno scintillante esempio di teatro musicale a orologeria: un meccanismo perfetto che certo offre anche una rassicurante dose di sentimentalismo, ma soprattutto schiude allo spettatore – in maniera mai prima così diretta e inquietante nel melodramma italiano – i recessi più oscuri dell’anima umana. Nel giro di un paio di decenni arriveranno Richard Strauss e Alban Berg, arriveranno Salome, Elektra e Wozzeck. Ma Tosca a buon diritto, come la critica più avvertita ha da tempo riconosciuto, può considerarsi la prima tappa di questo percorso nella modernità.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it