Prigozhin: «Tornati a casa 32 mila ex detenuti che hanno combattuto con la Wagner»

Sono 32 mila gli ex carcerati che, dopo aver combattuto in Ucraina con il Gruppo Wagner, sono tornati a casa in Russia, come uomini liberi. Lo ha detto il capo della milizia mercenaria Yevgeny Prigozhin. L’annuncio è arrivato pochi giorni dopo che il presidente Vladimir Putin ha confermato pubblicamente i rapporti investigativi secondo cui lo zar aveva graziato personalmente i detenuti russi che si erano arruolati per combattere con il gruppo paramilitare, che ha svolto un ruolo chiave a Bakhmut, nella battaglia più lunga e sanguinosa della guerra in Ucraina.

Prigozhin: «Tornati a casa 32 mila ex detenuti che hanno combattuto con la Wagner». L'annuncio del fondatore della milizia mercenaria.
La sede del Gruppo Wagner a San Pietroburgo (Getty Images)

Per i carcerati che si arruolano c’è la grazia dopo sei mesi al fronte

«Al 18 giugno 2023, 32 mila persone precedentemente condannate e che hanno preso parte all’operazione militare speciale tra i ranghi del Gruppo Wagner sono tornate a casa alla fine dei loro contratti», ha dichiarato Prigozhin, sottolineando che meno dell’1 per cento di tutti i soldati Wagner reclutati nelle carceri della Federazione Russa ha commesso crimini, una volta tornati in libertà dopo aver combattuto in Ucraina. «Le persone rilasciate dal carcere nello stesso periodo senza un contratto con il Gruppo Wagner hanno commesso 80 volte più crimini», ha affermato Prigozhin. La milizia dell’ex “cuoco di Putin” ha iniziato a reclutare prigionieri nel tentacolare sistema penale russo la scorsa estate, offrendo ai detenuti la grazia se fossero sopravvissuti a sei mesi di servizio in Ucraina.

Prigozhin: «Tornati a casa 32 mila ex detenuti che hanno combattuto con la Wagner». L'annuncio del fondatore della milizia mercenaria.
Una pubblicità del Gruppo Wagner: la campagna di reclutamento è finita a febbraio (Getty Images).

Secondo gli attivisti per i diritti dei detenuti i conti non tornano

Secondo Olga Romanova, principale attivista per i diritti dei detenuti, l’esercito privato di Prigozhin avrebbe reclutato in totale quasi 50 mila carcerati, di cui circa 30 mila sarebbero morti in combattimento: in base a queste stime, la cifra indicata da Prigozhin – che ha annunciato la fine della sua campagna di reclutamento di prigionieri a febbraio – risulterebbe dunque esagerata. Dopo aver negato per anni ogni legame con il gruppo mercenario, accusato di brutalità e destabilizzazione nelle zone di conflitto in tutto il mondo, Prigozhin ha confermato l’anno scorso di aver fondato la compagnia militare privata Wagner che, in base alla legge russa, sarebbe illegale.

La relazione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale: 1.094 attacchi nel 2022

Dal malware al phishing, dal ransomware alla compromissione della casella mail, nel 2022 sono stati 1.094 gli “eventi cyber” trattati dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Di questi, 126 hanno avuto un impatto confermato dalla vittima e per questo sono stati classificati come “incidenti”. È quanto emerge dalla prima relazione annuale dell’Agenzia trasmessa oggi al parlamento, che dà conto di «un deciso aumento di attività malevole ai danni di settori governativi e infrastrutture critiche». Il fenomeno si è acuito con la guerra in Ucraina: l’Italia «è tra i Paesi maggiormente interessati dalla diffusione generalizzata di malware e da attacchi cibernetici mirati, specie in danno del comparto sanitario e di quello energetico».

Agenzia per la cybersicurezza nazionale: 1.094 attacchi nel 2022. La prima relazione annuale in parlamento.
L’Italia ha subito 1.094 attacchi cyber nel 2022 (Pixabay).

L’Italia è il Paese europeo più colpito dai malware

Per quanto riguarda gli oltre mille attacchi, spiegano i curatori del report, è stato possibile individuare le tipologie più ricorrenti: diffusione di malware tramite email (517, Italia Paese europeo più colpito), brand abuse (204), phishing (203), ransomware (130), sfruttamento di vulnerabilità (126), information disclosure (103),  sfruttamento vulnerabilità verso web server (87), scansioni (74),  esposizione di dati (67), tentativi di intrusione tramite credenziali (64), Ddos (44), smishing (41). «È sicuramente cresciuta l’attenzione dell’opinione pubblica verso incidenti e attacchi di varia origine e intensità», tuttavia «dall’altra la piena consapevolezza dei rischi cyber – specie se comparata al livello di pervasività che le tecnologie dell’informazione hanno raggiunto nella nostra vita quotidiana – è di là da venire». Lo scrive nella relazione annuale al parlamento il prefetto Bruno Frattasi, che a marzo ha assunto la direzione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. «Il necessario adeguamento ai continui mutamenti che l’ambiente impone non va disgiunto da un’azione programmatica di lungo termine, che sostenga lo sviluppo di capacità tecnologiche nazionali all’interno di un ecosistema virtuoso, anche ai fini del perseguimento di un’autonomia strategica di settore», scrive il sottosegretario Alfredo Mantovano, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.

Agenzia per la cybersicurezza nazionale: 1.094 attacchi nel 2022. La prima relazione annuale in parlamento.
La camera dei Deputati (Getty Images).

L’Agenzia per la cybersicurezza ha impegnato 70 milioni del Pnrr

Il 2022 è stato di fatto il primo anno di piena operatività dell’Agenzia per la cybersicurezza, che è nata a metà 2021 con il governo Draghi, sotto la direzione di Roberto Baldoni. Nel corso del primo anno di attività, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale ha impegnato oltre 70 milioni dei 623 che ha in dote con il Pnrr, ovvero l’11 per cento del totale: 129 i progetti di cybersecurity finanziati, 67 le misure per l’affidabilità delle infrastrutture digitali realizzate, cinque le missioni internazionali, 19 gli incontri bilaterali, 27 le riunioni del Nucleo di cybersicurezza. Come spiega la relazione di 140 pagine, nel secondo semestre del 2022 è stato avviato il vero e proprio processo di pianificazione strategica per il triennio 2023-2025. Nel corso di quest’anno, invece, in linea con la Strategia nazionale di cybersicurezza 2022-2026, terminerà la fase di definizione degli obiettivi strategici e delle relative linee d’azione.

Swan morto a 41 anni: addio al ballerino pugliese conosciuto in tutto il mondo

Il mondo della danza italiano è attualmente in lutto: nelle scorse ore è morto prematuramente Luigi Piccione in arte Swan, un apprezzatissimo coreografo e ballerino di origini pugliesi (era nato a Taranto) ma vissuto negli ultimi anni a Bologna.

L’annuncio della morte del ballerino Swan

Il danzatore, di soli 41 anni al momento della morte, era molto noto a livello italiano e internazionale soprattutto per una particolare tecnica di hip hop, il cosiddetto popping e locking. Considerato tra i pionieri dell’arte nel nostro Paese, ha formato numerosissimi ballerini con le sue lezioni e workshop organizzati nel corso degli anni in tutta Italia.

Luigi Piccione conosciuto come Swan è morto nelle scorse ore all'età di 41 anni: il ballerino è scomparso per cause ancora ignote.
Il ballerino Luigi Piccione in arte Swan con due amici (Instagram).

Piccione era molto attivo a Roma, dove aveva tenuto diverse lezioni presso la Santinelli Dance Acedemy di Balduina e in via Mattia Battistini. A ricordarlo sui social è stato l’amico storico MOKO Lils, che con un toccante post Facebook ha omaggiato il compagno di numerose avventure scrivendo: «Il mio mondo si ferma e tutto a d’un tratto il fiume in pienaprecisamente 3 settimane fa abbiamo passato due giornate insieme come i vecchi tempi dove ti ho presentato le mie bimbe e tutta la mia nuova vita eri entusiasto…forse più di me ! Dal lontano 2003 ad oggi ho colorato il mio percorso artistico con una tavolozza tutta tua! Eri… oppure preferisco pensare SEI ancora ! Per me lo sarai sempre UNICO e INIMITABILE. Se prima eri un esempio da portare adesso sei la legenda da nominare, cercherò di continuare a gridarlo al mondo intero. Certo amico mio troppo inaspettato Ma una cosa la so certe cose te le porti dentro tutta la vita! Tu nella mia eri fondamentale MISS YOU MUCH my TEACH/FRIEND And FAM!».

Il cordoglio per la moglie del ballerino sui social e le cause della morte

Sono state tantissime le persone che sotto al post Facebook di cui sopra hanno scritto i loro messaggi per ricordare Swan. Nel frattempo, come riporta Leggo, trapelano via social le possibili cause della morte, che però non sono state confermate: sembra il ballerino abbia avuto un malore improvviso mentre si trovava in casa.

Prima prova Maturità 2023, le possibili tracce: anniversari e temi

Il 21 giugno, fra un paio di giorni appena, migliaia di studenti delle scuole superiori di tutta Italia torneranno sui banchi per cominciare i tanto temuti esami di Maturità 2023. Come ogni anno i maturandi sperano di riuscire in qualche modo ad anticipare le tracce del MIUR, provando ad indovinare quello che il Ministero ha in serbo per loro per quanto riguarda la prima prova, il tema di italiano. Quale sarà dunque l’autore per la traccia dell’analisi del testo? Quali gli argomenti di attualità e storici al centro della prova? Ecco quali potrebbero essere gli scenari più probabili.

Esami di Maturità 2023, prima prova: i possibili autori per l’analisi del testo

Anche quest’anno, come sempre, saranno essenzialmentre tre le categorie di traccia che gli studenti potranno selezionare: l’analisi del testo letterario, il saggio breve/testo argomentativo e il tema storico o di attualità. Per quanto riguarda il primo si dice che l’autore più papabile sia Alessandro Manzoni, del quale nel 2003 si celebrano i 150 anni dalla morte. Si parla però anche della possibilità che in prima prova escano testi di Gabriele d’Annunzio, di Giovanni Verga, o ancora di Luigi Pirandello o Italo Svevo. Inoltre, è possibile che il MIUR abbia selezionato un testo di Italo Calvino, di cui si ricordano i 100 anni dalla nascita.

I temi di attualità e storici: dalla nascita del Mercato Unico Europeo alla Costituzione

30 anni fa nasceva il Mercato Unico Europeo, il primo step verso la creazione di una moneta unica come l’Euro. 75 anni fa, inoltre, entrava in vigore la Costituzione italiana. Ma non sono certo gli unici argomenti possibili per il tema storico, che potrebbe includere la morte della Regina Elisabetta, oppure il ricordo degli 80 anni della caduta del Fascismo in Italia.

Per quanto riguarda il saggio breve d’opinione, chi lo sa, potrebbe essere prevista una riflessione sull’arrivo dell’Intelligenza Artificiale e di ChatGPT, che com’è noto potrebbe rivoluzionare le nostre vite per sempre. Di grande interesse in questo periodo storico è anche il tema del femminicidio e delle violenze sulle donne, o ancora quello dei diritti civili e delle recenti proteste contro il regime iraniano. Sempre nel 2023, inoltre, si celebra un altro importante anniversario, ovvero quello relativo alla prima chiamata con il cellulare, avvenuta 50 anni fa, il 3 aprile 1973.

Le mire espansionistiche di Fabrizio Palenzona nel risiko bancario

Una marcia quasi inarrestabile. Dove vuol arrivare Fabrizio Palenzona? Il neopresidente della Fondazione Crt sarà alla guida anche della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria. L’elezione è avvenuta nei giorni scorsi all’unanimità dall’assemblea dei soci che riunisce: la Fondazione Compagnia di San Paolo, le Fondazioni Cr Torino, Cuneo, Alessandria, Asti, Biella, Fossano, Saluzzo, Savigliano, Tortona, Vercelli per il Piemonte; le Fondazioni Carige, Carispezia e Agostino De Mari-Savona per la Liguria. «Uniamo le forze, perché abbiamo tutti lo stesso obiettivo e lo stesso dovere di offrire il miglior servizio ai territori, valorizzando le risorse che derivano dalla fatica, dal lavoro e dai risparmi delle comunità che ci hanno preceduto», ha detto il presidente Palenzona, ringraziando i colleghi presidenti delle Fondazioni piemontesi e liguri. «Un tema che ci unisce», ha proseguito Palenzona, «è certamente il disagio giovanile, la povertà educativa e di prospettiva di molti bambini e ragazzi in età scolastica e delle loro famiglie: abbiamo l’esigenza di dare risposte immediate alle disuguaglianze per riattivare l’ascensore sociale e offrire opportunità a chi non ne ha». Parole sagge.

Le mire espansionistiche di Fabrizio Palenzona nel risiko bancario
Fabrizio Palenzona.

Il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza

C’è dunque chi si interroga su che cosa farà adesso Palenzona. Essere presidente della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria vuol dire esercitare un potere reale sia su Unicredit sia su Intesa, oltre a governare l’Acri che nomina il presidente di Cassa depositi e prestiti. Da quando è arrivato alla presidenza di Fondazione Crt, il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza per muovere le tessere del risiko bancario. «Le banche in cui siamo azionisti hanno dei manager che devono decidere e fare delle proposte», ha detto a margine di un convegno di Bain sul sistema bancario. «Io parlo da cittadino e dico che nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione».

Le quattro partite calde di Draghi: Mps, Ita, Saipem ed Enel
Il Monte dei Paschi a Siena. (Getty Images)

Il pensiero sulle tante possibilità di aggregazione

Quello che dice Palenzona è importante perché in pancia a Crt ci sono, oltre alla quota in Generali (1,61 per cento), anche quelle in Unicredit (1,9 per cento) e Banco Bpm (1,8 per cento), dove ha siglato un patto con altri enti e casse previdenziali, a cui si aggiunge una piccolissima quota in Monte dei Paschi, derivante dal salvagente gettato a Siena in occasione dell’aumento di ottobre. Adesso, con la nuova nomina, al puzzle si aggiunge la quota della Fondazione San Paolo, primo azionista di Intesa SanPaolo. Il risiko bancario non dorme mai e il pensiero di Palenzona è chiaro: nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione.

Primo incontro tra orcel e castagna
Andrea Orcel e Giuseppe Castagna.

Bpm vuole sfuggire alle mire dell’Unicredit di Orcel

Secondo varie indiscrezioni, il ceo di Banco Bpm Giuseppe Castagna sta trattando l’acquisto di Mps, risanato dal Tesoro. L’obiettivo di Castagna è duplice: da un lato, rilevando il Monte dei Paschi, fa un favore al governo; dall’altro l’acquisizione darebbe una mano a Bpm per ingrossarsi e sfuggire alle mire espansionistiche dell’Unicredit di Andrea Orcel, di cui Palenzona è grande amico. Con l’acquisizione di Mps, Bpm diventerebbe un boccone più costoso per la banca milanese. Un’operazione gradita anche a Carlo Messina. Intesa Sanpaolo, con il mancato matrimonio Unicredit-Bpm, resterebbe la prima banca italiana e potrebbe dedicarsi a qualche importante acquisizione all’estero.

I risultati del 2022 di Intesa Sanpaolo confermano la capacità del Gruppo di generare una solida redditività e di creare valore per tutti gli stakeholder.
Carlo Messina. (Getty Images)

Europee, Meloni e il risiko delle alleanze

Dopo aver terminato l’incontro con il presidente tunisino Kais Saied l’11 giugno scorso, Ursula von der Leyen ha scelto di aprire la conferenza stampa, senza giornalisti e senza domande, con una frase che aveva il sapore di uno slogan elettorale: «Siamo qui come team Europa». Alla sua destra Giorgia Meloni e a sinistra il premier olandese Mark Rutte. I tre erano volati alla corte di Saied per provare a strappare un accordo sui migranti. Soldi, tanti, per convincere la Tunisia a trattenere chi prova a fuggire da un Paese al limite del collasso sociale ed economico. Una soluzione che il presidente tunisino, da più parti criticato per il suo autoritarismo, non ha voluto, per ora, accettare.

Europee, Meloni e il risiko delle alleanze
Meloni e von der Leyen al G7 di Hiroshima (Getty Images).

Von der Leyen tra Meloni e Rutte: a Tunisi la fotografia del ‘team Europa’

Al di là dei contenuti di una missione che non sembra aver raggiunto obiettivi significativi, resta la foto dei tre leader. Insieme, nel nome dell’Europa. «L’istantanea di Tunisi assume un significato soprattutto se si osserva il cambiamento politico di Giorgia Meloni», spiega a Tag43 Federico Ottavio Reho, coordinatore della ricerca del Martens Centre, think tank ufficiale dei Popolari Europei. «L’approccio euroscettico, che aveva caratterizzato le sue posizioni prima di diventare premier, sembra ormai accantonato. La trasformazione di Fratelli d’Italia in una forza di sistema appare completa». È dunque un fatto che Giorgia Meloni in pochi mesi abbia scelto di cambiare abito: da spauracchio ad architrave del “team Europa”, consapevole della grande occasione che le si presenterà con il voto alle prossime elezioni europee nel giugno del 2024. Sola non può vincere, alleata può essere determinante. In questa chiave, la foto di Tunisi sembra anticipare ciò che potrebbe succedere tra un anno esatto. La popolare von der Leyen, al centro, alleata a destra con la conservatrice Meloni e a sinistra con il liberale Rutte. «Non è sbagliato pensare», sottolinea Reho, «che alle prossime elezioni europee si formi un’alleanza tra Liberali, Popolari e Conservatori. E non sarebbe un inedito visto ciò che è successo, ad esempio, con l’elezione di Roberta Metsola a presidente del Parlamento europeo. Per il Ppe i cardini su cui costruire un’intesa sono sempre gli stessi: europeismo e atlantismo. A partire da questo poi si discuterà con chi allearsi e su quali programmi». Non a caso l’ultimo viaggio a Roma del presidente dei Popolari Europei Manfred Weber è servito a mettere sul tavolo le condizioni dei Popolari. Sia alla premier, a cui ha aperto le porte sbarrandole ai suoi alleati più scomodi (come il Pis polacco e Vox spagnolo), che a Matteo Salvini, il cui avvicinamento al Ppe è condizionato alla separazione da Marine Le Pen e dal gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà. Tuttavia, pare difficile immaginare che i due azionisti di maggioranza del governo italiano scelgano di scaricare i propri amici e alleati europei.

Europee, Meloni e il risiko delle alleanze
Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni a Tunisi (dal profilo Twitter di Ursula von der Leyen).

Meloni e la politica dei due forni, ma con i sondaggi alla mano

Certo è che più si avvicinano le decisioni da prendere a Bruxelles, più Meloni pare allontanarsi dalle proprie origini politiche. Basta pensare a cosa è successo lo scorso 8 giugno. Dopo una lunga trattativa, i governi Ue hanno approvato, a maggioranza, il Patto immigrazione e asilo, un accordo che rivede in parte le regole del trattato di Dublino sugli sbarchi e sull’accoglienza dei migranti. L’Italia ha votato a favore, si sono astenuti, neanche a dirlo, gli alleati polacchi e l’Ungheria dell’amico Orban. Il giorno dopo quello strappo, però, la premier ha scelto la masseria di Bruno Vespa per dare un segnale distensivo ai vecchi amici, difendendoli dalle accuse di autoritarismo: «Polonia e Ungheria sono sicuramente delle democrazie, più giovani delle nostre. C’è un lavoro che va fatto per rafforzarle, io farò la mia parte. L’Ue non è un club, non ci sono nazioni di serie A e B». Meloni per ora sembra affidarsi alla democristiana politica dei due forni, in attesa di scegliere da che parte stare. Accanto alle alleanze ci sono però i numeri. Per avere la maggioranza nel Parlamento europeo servono 353 seggi e, guardando sondaggi e proiezioni, a oggi l’accordo con Popolari e Liberali non basterebbe per raggiungere quel risultato. Il sito Europe Elects che monitora le rilevazioni demoscopiche europee, ha messo nero su bianco questo scenario: il Ppe avrebbe una forchetta tra 150 e 166 seggi, i Conservatori tra 75 e 86, i Liberali tra 79 e 95. Così sommata la migliore delle ipotesi farebbe 347. «Un’alleanza Popolari, Liberali e Conservatori», conclude Reho, «potrebbe non bastare per avere la maggioranza. A quel punto sarebbe necessario un accordo con i socialisti. Ed è evidente che la presenza o meno dei Conservatori in una coalizione più ampia farebbe la differenza e sarebbe decisiva nell’orientare le scelte politiche del prossimo Parlamento e della prossima Commissione europea». E dunque per essere protagonista della legislatura che verrà, Meloni potrebbe dover accettare anche il compromesso più duro: un’alleanza con i ‘nemici’. Anche questo è far parte del “team Europa”, onori e oneri.

Forza Italia, chi dentro Lega e Fdi gestirà il travaso (ma occhio a Renzi)

Forza Italia sorvegliata speciale. Soprattutto dalle parti dei partiti alleati, Fratelli d’Italia e Lega. Oltre che da Italia viva, visto che la morte di Silvio Berlusconi fa riemergere un vecchio pallino di Matteo Renzi e cioè lanciare un’Opa su Fi. Bisogna però prima capire se la creatura del Cavaliere riuscirà a sopravvivere al suo fondatore, e soprattutto per quanto (fino alle Europee?). Nel frattempo si preannuncia un gran da fare per gli addetti allo scouting tra Fratelli d’Italia e tra i leghisti a cui toccherà dirigere l’eventuale traffico azzurro in entrata nei rispettivi partiti. Come già scritto, infatti, per ora il timone di Fi è in mano all’ala composta da Antonio Tajani, Marta Fascina e Marina Berlusconi ed è un assetto che Giorgia Meloni spera che possa reggere sia per non destabilizzare la maggioranza di governo sia nell’ottica delle Europee 2024 e del progetto che ha in serbo la premier: creare un asse tra Conservatori e Popolari. Ma se così non fosse? In quel caso entrerebbero in azione i pontieri. A loro il compito di dare semaforo verde ai berluscones in libera uscita, con un occhio di riguardo alla pattuglia di senatori, visto che a Palazzo Madama i numeri sono sempre più ballerini. Primo passo in vista, chissà, di un futuribile partito unico, una sorta di riedizione del Popolo della libertà.

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Santanchè, che conosce il berlusconismo, in prima linea

Una cosa è certa: una iniziale scrematura dei curriculum non può non passare da esponenti milanesi di spicco di Fdi come Daniela Santanchè e – anche se in maniera più defilata per il ruolo istituzionale che riveste – Ignazio La Russa. Ma sarebbe soprattutto l’attuale ministra del Turismo a tenere le fila del dossier. Giocano a suo favore sia il ruolo di coordinatore regionale di Fdi in Lombardia e sia l’approfondita conoscenza del mondo berlusconiano di cui ha fatto parte. Ma in generale nel gruppo di testa dei “selezionatori” c’è l’intera compagine lombarda, come spiegano a Tag43 fonti parlamentari del partito, «e non solo, perché è da Milano che ha preso il via il berlusconismo, ma anche perché dopo l’affermazione di Fdi in Lombardia non si può prescindere dagli esponenti del territorio».

Il ministro del Turismo Daniela Santanche ha fatto una proposta per aiutare l'Emilia-Romagna, colpita dall'alluvione.
Daniela Santanché. (Getty)

In Regione allertati i meloniani Garavaglia e Romani

Tradotto significa, quindi, personalità come il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione, Christian Garavaglia, o lo stesso presidente del Consiglio regionale, Federico Romani. Che guarda caso, tra l’altro, è figlio dell’ex ministro azzurro Paolo Romani, a proposito di ponti con Forza Italia.
 Naturalmente, un ruolo di primo piano spetta a Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione del partito. Come è avvenuto per la composizione delle liste dalle elezioni politiche in poi, dentro Fdi non si prescinde neppure dal “cognato d’Italia”, Francesco Lollobrigida, che appunto fa parte della cerchia ristretta di Meloni e che ha in mano i principali dossier politici.

Cos'è, cosa significa e come funziona il giurì d'onore, lo strumento chiesto da Fornaro dopo le affermazioni di Donzelli.
Giovanni Donzelli e Giorgia Meloni. (Getty Images)

A Malan torna utile la vecchia militanza in Forza Italia

Così come da Guido Crosetto, che è tra i fondatori del partito. Il ministro della Difesa, inoltre, è piemontese. Al bisogno, quindi, in vista del rinnovo della giunta regionale, chi meglio di lui potrà avere voce in capitolo in una eventuale selezione di azzurri sul territorio? Magari insieme a un altro big piemontese del partito come l’attuale capogruppo Fdi in Senato, Lucio Malan, per il quale torna utile pure la vecchia militanza tra le file di Fi. Al netto del fatto che, comunque, ogni decisione finale spetterà, ça va sans dire, alla premier.

Dal dialogo immaginario tra un uomo e il governo, al libro lanciato in senato a Franco Marini, chi è il senatore Lucio Malan
Lucio Malan.

Come detto, tutto dipenderà dalla tenuta o meno di Forza Italia e, dunque, dalla capacità di Tajani di traghettare il partito almeno fino alle Europee. In caso contrario, in vista dell’appuntamento elettorale per rinnovare il parlamento Ue, una voce in capitolo su eventuali innesti forzisti tra le fila meloniane l’avrà infine l’eurodeputato milanese Carlo Fidanza.

Porte aperte in Via Bellerio? Ancora presto

Anche dentro la Lega, però, le antenne sono tese. Si sa che una parte degli azzurri, soprattutto l’area ronzulliana, ha sempre avuto un canale di dialogo privilegiato con Matteo Salvini. Troppo presto, tuttavia, per immaginare migrazioni e, quindi, porte aperte in via Bellerio. Da queste parti, infatti, si è sempre puntato a privilegiare le ricandidature «per chi ha operato bene», come spiegano fonti parlamentari del Carroccio a Tag43, «e questo vale sempre, non solo in vista delle Europee tra un anno». Un conto poi sono «i portatori di voti e quindi gli eventuali innesti di qualità», ragionano, «un altro è imbarcare tanto per imbarcare». Comunque sia se l’implosione di Forza Italia dovesse consumarsi a stretto giro, le camicie verdi non resterebbero a guardare e soprattutto non lascerebbero campo libero a Fdi o ai renziani, desiderosi di ridare verve al centro. Un’eventuale campagna acquisti comunque seguirebbe rigidi passaggi piramidali «perché nella Lega le gerarchie funzionano e si rispettano».

Cosa c'è dietro nomina di ronzulli in lombardia
Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini. (Getty Images)

Europarlamento, si muovono i leghisti Zanni e Campomenosi

Per semplificare, insomma, l’imprimatur spetta al segretario, ma sarebbe l’ultimo miglio. C’è un passaggio intermedio imprescindibile: quello innanzitutto dei capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. E poi quello dei coordinatori regionali che «sono il vero filtro sul territorio», così come, guardando all’europarlamento, le figure dell’eurodeputato leghista e presidente del gruppo Identità e democrazia, Marco Zanni, e del capo delegazione del Carroccio a Bruxelles, Marco Campomenosi.

Il rischio è subire lo scacco matto da Renzi

Il quadro chiaramente è in divenire. Una cosa è certa, però: né Fdi e né la Lega vogliono rimanere col cerino in mano e quindi subire uno scacco matto da Matteo Renzi. Le mosse dell’ex premier vengono guardate a vista, anche perché sono ben noti i suoi colpi da stratega parlamentare. Intervistato da la Repubblica, per esempio, dice di non puntare agli elettori di Fi, salvo aggiungere che sarebbe «irrispettoso parlarne ora», ma poi quasi si defila sottolineando lo spazio più grande che adesso Meloni ha al centro «e mi stupirei se non provasse a occuparlo». Una sorta di avviso ai naviganti. A riprova che all’occorrenza il leader di Rignano sfodererà tutte le sue doti da king maker.

Terzo polo, Renzi già corteggia Ronzulli e altri in uscita da Forza Italia
Licia Ronzulli, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. (Getty)

Ruggeri direttore responsabile del Riformista non è un caso…

Del resto, i buoni intenditori le prime avvisaglie le hanno colte nella scelta dell’ex parlamentare di Forza Italia Andrea Ruggeri come direttore responsabile del Riformista (di cui Renzi, appunto, è direttore editoriale). E che dire del titolo “Come te non c’è nessuno” con cui ha aperto il quotidiano il giorno dopo la morte del Cav? Insomma, per ora ammicca, ma «può entrare in azione da un momento all’altro», è il pensiero comune tra i più sospettosi del centrodestra. «E se lo fa in Senato, toccando le corde giuste con gli azzurri in materia di giustizia, per esempio, gli può davvero riuscire di rafforzare la sua pattuglia e arrivare a condizionare la maggioranza».

Ministero delle Imprese, i tre dossier in capo a Urso che sono spariti

Qui c’è da chiamare Chi la visto? Se la celebre trasmissione tivù si occupasse di leggi e decreti avrebbe il suo bel da fare dalle parti di via Molise, sede del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit). Cosa si è smarrito? Sono almeno tre i dossier in capo al dicastero guidato da Adolfo Urso di cui si sono perse le tracce.

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Commercianti ambulanti, punto spinoso

Il primo è il ddl Concorrenza. Il testo è stato portato in Consiglio dei ministri una prima volta il 6 aprile, ma solo il 20 ha ricevuto il via libera. Da lì in poi si è aperto un buco nero. Il provvedimento, infatti, non è mai stato trasmesso dal governo al parlamento. Al momento, sapere notizie più dettagliate è impossibile. Fonti parlamentari si limitano a confermare la mancata trasmissione. E anche capire il nodo che blocca l’avanzamento dell’iter è impresa non facile. Nel testo ci sono punti spinosi – come le concessioni dei commercianti ambulanti, che saranno assegnate tramite gara, a partire sin da subito dai posteggi non ancora assegnati, salvaguardando l’affidamento degli attuali concessionari che potranno godere di un rinnovo in via eccezionale per 12 anni e la liberalizzazione dei saldi, prima inseriti poi stralciati dal testo -, ma non ci sono temi che hanno spaccato il parlamento in tempi recenti.

Ministero delle Imprese, i tre dossier in capo a Urso che sono spariti
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. (Getty)

Però balneari e tassisti sono fuori dal dossier

La questione balneari era stata risolta dal governo Draghi, mentre Giorgia Meloni ha deciso di non affrontare il dossier taxi. «Si introduce una prassi virtuosa, sin qui priva di riscontri nella recente storia legislativa italiana: finora la legge, infatti, non era mai stata approvata per due anni consecutivi. In 15 anni, dal 2009, è stata realizzata solo due volte nel 2017 e appunto nel 2022. Questa è la terza», aveva comunicato il Mimit il giorno dell’approvazione. Fatto sta che da quel momento il provvedimento è rimasto nei cassetti dell’esecutivo. Quando si aprirà? Chissà.

Qualcuno, tra i tecnici, parla di problemi di copertura

Il secondo provvedimento approvato tra squilli di tromba del governo e in particolare del Mimit è il cosiddetto ddl Made in Italy. Tra le misure simbolo l’istituzione del Fondo sovrano da un miliardo per il Made in Italy, per l’attrazione di capitali e la realizzazione di investimenti governativi diretti e indiretti e l’arrivo del liceo del Made in Italy. Il giorno successivo all’approvazione in Cdm, il primo giugno, il capo di gabinetto del ministero, Federico Eichberg, aveva indirizzato un lettera a dir poco entusiasta ai dipendenti. «L’occasione dell’attuazione delle norme del ddl Made in Italy (a completamento dell’iter parlamentare) saranno la tua, la mia occasione di scrivere un verso nella narrazione del racconto chiamato “made in Italy”», aveva scritto Eichberg. Ma la narrazione, evidentemente, può aspettare e anche in questo caso il ddl non è stato trasmesso. Qualcuno, tra i tecnici, parla di problemi di copertura delle misure. Ma conferme ufficiali non vengono date.

Decreto legge Tlc: 10 articoli rimasti in bozza

Infine, il 22 maggio comincia a circolare un bozza di decreto legge Tlc: 10 articoli con norme destinate a principalmente a tre settori (banda ultralarga, sviluppo tecnologico e lavoro) per complessivi 1,5 miliardi di risorse. Anche in questo caso, il dossier è in mano principalmente a Urso. Dopo la bozza – i cui contenuti sono stati riportati dalla stampa – non se ne è saputo più nulla. Zero. Pronto, Chi l’ha visto? Abbiamo bisogno di voi.

Forza Italia, le suppletive di Monza primo test per avviare il dopo-Berlusconi

Mentre dopo la morte di Silvio Berlusconi una Forza Italia orfana del suo fondatore prova a immaginare un futuro politico, già si prepara la prima, vera sfida per quel che resta del partito del Cavaliere. Parliamo delle elezioni suppletive che devono colmare il seggio lasciato vuoto al Senato proprio dal defunto Berlusconi, eletto il 25 settembre 2022 nell’uninominale di Monza (Lombardia – 06), grazie al 50,26 per cento dei voti col sostegno dell’intera coalizione di centrodestra. E adesso cosa succederà?

Monza, scontato che il candidato del centrodestra sarà un forzista

Il seggio, venuto a mancare il suo vincitore, è vacante. Nei prossimi mesi vanno programmate nuove elezioni in cui è pressoché scontato che il candidato del centrodestra sarà un forzista. Il voto di Monza è un primo crocevia per la creatura politica di Berlusconi. Che può far capire molto sul futuro del partito a lungo predominante nel panorama politico italiano. Gli scenari che si aprono sono tre: il primo verrebbe messo in campo per evitare di trasformare in un redde rationem sul futuro di Forza Italia la scelta del candidato all’uninominale. Il secondo, invece, subordinerebbe la decisione in un collegio sulla carta “blindato” alla lotta tra due correnti in cui il partito è diviso, quella legata a Licia Ronzulli e quella di Antonio Tajani. L’ultimo scenario è quello di un’iniziativa personale della famiglia Berlusconi, che darebbe così un primo segnalare di continuità dell’azione politica del Cav. Ma vediamo nel dettaglio.

La mappa di Forza Italia: chi sta con Ronzulli e chi con Tajani
Silvio Berlusconi e Licia Ronzulli al Senato (Getty Images).

1. L’ipotesi non di rottura: il nome del rientrante Mandelli

Se l’elezione suppletiva per sostituire al Senato il quattro volte presidente del Consiglio venisse trattata come un’elezione “normale”, molti indicatori puntano nella direzione di una scelta fatta col bilancino, di un nome cioè capace di non rappresentare una rottura. Su Open è emersa l’indiscrezione che il “Mister X” possa essere il rientrante Andrea Mandelli. Consigliere comunale dal 2002 a Monza, candidato sindaco sconfitto al ballottaggio nel capoluogo brianzolo nel 2012, senatore dal 2013 al 2018 e deputato dal 2018 al 2022, Mandelli presiede inoltre dal 2009 la Federazione dell’Ordine dei farmacisti italiani (Fofi). Il suo nome può garantire standing e relativa terzietà. Politicamente vicino a Tajani, al tempo stesso non è mai stato particolarmente critico con la rivale interna Ronzulli. Anche se a quest’ultima molti imputano il fatto che Mandelli sia stato, alle Politiche 2022, mandato allo sbaraglio a giocarsi la rielezione alla Camera nel collegio di Milano – Loreto, dove all’uninominale è stato sopravanzato da Bruno Tabacci.

2. Scontro tra le correnti e accentramento sulla Fascina

Se Forza Italia saprà gestire questa fase e convergere su un nome politico condiviso, un minimo spiraglio di futuro oltre Berlusconi può aprirsi. Ma tra Lega e Fratelli d’Italia pronti alla scalata da un lato e le ambizioni politiche di molti colonnelli dall’altro, il rischio di implosione è sempre dietro l’angolo. Un secondo scenario apre la strada alla concezione della partita per Monza come resa dei conti tra le correnti, che potrebbe anche finire con l’accentramento sempre maggiore delle scelte su colei che oggi appare l’arbitro del partito, l’ultima compagna del Cavaliere Marta Fascina. La quale, alla vigilia del funerale, ha imposto a Forza Italia la linea dei suoi fedelissimi.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Marta Fascina e Silvio Berlusconi nel settembre 2022 (da Fb).

L’idea è che figure come Tajani non abbiano ancora in mente una successione, abituate come sono state a vivere, a lungo, un passo dietro Silvio. La Fascina, invece, ha ben altri obiettivi politici e personali dopo tre anni vissuti fianco a fianco dell’ex premier. In quest’ottica, Monza può essere l’anticamera di un tutti contro tutti su cui rischia di partire la scalata degli “alleati” ai membri di punta di Forza Italia. E qui si apre la porta al terzo scenario. Quello che vede la famiglia Berlusconi chiamata a mettere una fiche, direttamente o indirettamente, sulla scelta del successore del Cav per un seggio che ha valenza non solo politica ma anche simbolica.

3. Che ruolo giocherà la famiglia? L’idea Messina

La famiglia Berlusconi, garante finanziaria di Forza Italia, ha tutto l’interesse a non vedere perso il seggio che fu di Silvio. «Il soggetto politico è in mano a Marina Berlusconi e agli altri figli grazie alle fideiussioni da 100 milioni di euro» garantite negli anni, spiega la Repubblica, e questo consente alla famiglia di mantenere in capo il controllo del simbolo. Per questa ragione, la prima sfida politica potrebbe vedere un coinvolgimento diretto in prima persona degli imprenditori e manager della dinastia del Cav. Troppo importante la posta in palio e troppo chiare le minacce di implosione del partito. Marina Berlusconi, forte dell’asse personale con Giorgia Meloni, ha un prestigio personale come figura di sistema in virtù del suo vissuto imprenditoriale e del suo ostentato distacco verso ambizioni politiche personali mostrato in passato. L’ipotesi di scendere in campo da “garante” della continuità berlusconiana è stata proposta da Open, che ha parlato di una possibile candidatura della ditta Fininvest a supplenza del seggio di Berlusconi. Tanto che si parla del fatto che «possa essere Alfredo Messina il candidato nell’uninominale di Monza. Legatissimo alla famiglia Berlusconi, dagli Anni 90 orbita con ruoli dirigenziali nella galassia Fininvest e Mediolanum». Su cui però grava l’incognita età: ha quasi 88 anni, più del defunto Silvio.

Forza Italia, le suppletive di Monza primo test per avviare il dopo-Berlusconi
Alfredo Messina.

Ma nei sondaggi la preferita è sempre Marina…

In quest’ultimo scenario, non è da escludere che la “golden share” dei Berlusconi possa sostanziarsi in una discesa diretta nell’agone politico di uno dei figli. Prima indiziata potenziale, la stessa Marina. Non ci sono voci consolidate, ma c’è sicuramente una grande domanda di continuità dell’elettorato berlusconiano. Il sondaggio emerso su la Repubblica il 14 giugno, giorno dei funerali di Berlusconi, mostra che Marina è col 54 per cento la preferita tra gli elettori del Cav come futura leader di Forza Italia. L’ipotesi continuità come garanzia in un partito senza regole di successione chiare. E che forse a una vera successione potrebbe non arrivare mai.

Silvio Berlusconi aveva avuto in vita un totale di 5 figli: Luigi, Eleonora, Barbara, Pier Silvio e Marina, ecco chi sono.
Marina Berlusconi (Getty).

Affluenza bassa e strategia per le Europee: le incognite

Una suggestione? Molto si capirà dal ruolo che i Berlusconi giocheranno nel decidere il candidato a Monza. Si andrà sicuramente dopo la pausa estiva, oltre metà settembre. Ma le elezioni suppletive consentiranno di mettere in campo strategie e visioni in vista di appuntamenti più corposi, come le Europee 2024. A cui non è affatto scontato che Forza Italia arrivi integra. L’obiettivo della famiglia Berlusconi e di Forza Italia sarà evitare che il seggio cambi padrone, passando al campo progressista.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia (Getty).

Sarebbe un colpo duro da sopportare. E che i forzisti vogliono escludere. Sicuramente da un lato è necessario organizzare continuità e coordinamento con le altre forze di governo. Ma dall’altro sarà doveroso trovare un fattore mobilitante per gli elettori. Le suppletive hanno spesso tassi d’affluenza bassissimi e sulla capacità di portare i brianzoli al voto per il loro senatore si giocherà anche molto del futuro di Forza Italia. Su questo campo, va detto, nulla avrebbe lo stesso effetto di rivedere il cognome Berlusconi sulla scheda.

Carrère, Lagioia, Capote: quando la cronaca nera diventa letteratura

«Il giornalismo è letteratura», ha detto Emmanuel Carrère alla presentazione milanese del suo ultimo libro V13 edito da Adelphi. V13 è il nome dato al processo degli attentati del 13 novembre 2015 che sconvolsero Parigi e il mondo intero (130 le vittime, oltre 350 i feriti) che lo scrittore francese ha seguito quasi quotidianamente, per 10 mesi, per Le Nouvel Observateur. Quattordici imputati, 1.800 parti civili, 350 avvocati. Da settembre 2021 a giugno 2022, Carrère ha seguito questo processo fiume seduto su una panca scomoda in un imponente palazzo nel cuore di Parigi, prendendo appunti su un taccuino appoggiato alle ginocchia. Vittime, imputati e corte sono i tre blocchi in cui è diviso il libro che, pagina dopo pagina, si trasforma in un viaggio senza ritorno fatto di orrore, violenza e atrocità. Un lavoro che si differenzia da altri di questo genere anche perché per la prima volta la luce più che sugli assassini è puntata sulle vittime, sui loro familiari e sui sopravvissuti. Un po’ perché gli assassini sono tutti morti e un po’ perché, come ha spiegato lo scrittore, gli imputati del V23 «erano poco interessanti e sostanzialmente un gruppo di idioti».

Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere Emmanuel Carrère e V13.

L’Avversario e il processo Romand

In V13 la cronaca, in questo caso giudiziaria, diventa letteratura. Lo stesso Carrère non è nuovo a questo genere di operazione. Ne L’Avversario, pubblicato nel 2000, raccontò il processo a carico di Jean-Claude Romand che nel gennaio del 1993 tentò di suicidarsi dopo aver sterminato moglie, figli e genitori. Le indagini dimostrarono in poco tempo che per quasi 20 anni Romand aveva mentito, facendo credere alla sua famiglia e ai conoscenti di essere medico mentre in realtà aveva lasciato l’università al secondo anno, non aveva un lavoro e trascorreva le giornate vagando per strade, parcheggi e bar a caso. Romand non era un semplice bugiardo, ma un soggetto affetto da mitomania, «una forma di squilibrio psichico caratterizzato da false affermazioni in cui l’autore stesso crede»; patologia che lo aveva trascinato in una spirale di follia. Implacabile riflessione sull’essere e sull’apparire, L’avversario mette il lettore di fronte al proprio lato oscuro, alle proprie piccole mitomanie e menzogne, in uno straziante gioco di specchi. Così una notizia locale di nera acquisisce una dimensione universale.

 

.Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere L’Avversario di Emmanuel Carrère.

Capote capostipite del genere con A sangue freddo

Per quanto anche Dostoevskij fosse partito da una notizia di cronaca per Delitto e castigo, ispirandosi alla storia del moscovita Gerasim Chistov che nel gennaio 1865 uccise con un’ascia due anziane, il capostipite di questo genere ibrido – il non fiction-novel – è universalmente riconosciuto essere A sangue freddo di Truman Capote. La vicenda da cui parte lo scrittore statunitense è quella di due assassini che sterminarono una tranquilla famiglia della provincia americana. Capote lesse questa notizia sulla cronaca locale, si fece mandare dal New Yorker come inviato e passò circa sei anni nella scrittura di questo reportage narrativo che, contro tutti i pronostici, fu unanimemente considerato il suo capolavoro. «Molti ritennero che fossi pazzo a sprecare sei anni vagando per le pianure del Kansas; altri respinsero la mia idea del romanzo-verità dichiarandola indegna di uno scrittore ‘serio’; Norman Mailer la definì un ‘fallimento dell’immaginazione’, intendendo, presumo, che un romanziere dovrebbe scrivere cose immaginarie e non cose reali»,raccontò lo stesso Capote.

Il delitto Varani indagato da Nicola Lagioia ne La città dei vivi

Un lavoro simile è stato fatto superbamente anche da Nicola Lagioia nel suo La città dei vivi all’interno del quale viene narrata, alla Capote, l’agghiacciante delitto Varani. In un anonimo appartamento del quartiere Collatino, periferia romana, due ragazzi di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, nel corso di un festino a base di sesso, alcol e droga uccisero dopo averlo seviziato per ore il coetaneo Luca Varani. «Ho trascorso quattro anni in giro per Roma a raccogliere materiale e documenti, ma soprattutto a incontrare gente, a fare domande, ho incontrato gestori di locali, piccoli commercianti, travestiti, spacciatori, senatori, carabinieri, baristi, dentisti, disoccupati, prostituti, educatori, avvocati, magistrati, agenti immobiliari, assicuratori, carrozzieri, ristoratori…», ha raccontato Lagioia, quasi ossessionato da come due ragazzi avessero deciso di rovinarsi completamente la vita senza alcun motivo. Il romanzo si apre con il sangue che cola in una biglietteria del Colosseo. Un inizio da film horror all’interno del quale non c’è nulla di inventato, nemmeno il perenne clima da indulgenza che aleggiava nella Capitale: «Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai. I tifosi del Feyenoord entravano ubriachi nella fontana di Trevi e prendevano a bottigliate la Barcaccia del Bernini, a Villa Borghese i vandali decapitavano le statue dei poeti, grandi buste di immondizia volavano da un palazzo all’altro, tutti pisciavano ovunque, un’indulgenza plenaria era nell’aria, e io stesso, che in un’altra città mi sarei fatto scoppiare la vescica, mi ero trovato più di una volta a inumidire le Mura Mura Serviane».

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan

Al netto della “svista” in cui sono incorsi Michela Murgia, Paolo Berizzi e Roberto Saviano a proposito del presunto saluto romano (e del presunto inneggiamento alla X Mas) nel corso della parata militare del 2 giugno, l’episodio ripropone un’annosa questione: ma è davvero efficace, e utile, disperdere energie, anche e soprattutto intellettuali, per gridare «al lupo al lupo!» fascista inseguendo manifestazioni che del fascismo spesso non fanno che rivelare aspetti perlopiù folcloristici, estetici, qualche volta persino grotteschi (o patetici, se si preferisce, come nel caso delle annuali manifestazioni in occasione della morte del duce, o in quella della marcia su Roma)? Non c’è dubbio che occorre tenere alta la guardia, ma sapendo discernere il ridicolo dall’inquietante e dal pericoloso (come può essere stato l’assalto alla Cgil di Roma, o quello al liceo fiorentino dello scorso febbraio, in questo caso a prescindere da ogni aspetto ideologico: qui c’è di mezzo la violenza).

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
Il tweet di Berizzi sulla parata del 2 giugno.

Ora si grida all’occupazione meloniana della Rai, ma da anni siamo assuefatti a una narrazione revisionista

Finché si sollevano polveroni e si criticano gli aspetti più formali che sostanziali (Giorgia Meloni che veste di nero, il presidente del Senato Ignazio La Russa che tiene in casa busti di Mussolini, e così via) non si rende un buon servizio all’antifascismo. E non è esasperando la polemica contro l’occupazione (come se fosse la prima volta che avviene) della Rai che si può intervenire sui meccanismi che permettono questo tipo di occupazioni, e men che meno sulla qualità dell’informazione. Certo, si dirà, ma una destra che si impossessa della tivù nazionale (oltre a possedere Mediaset) può davvero incidere sulla “narrazione” del Paese e inculcare idee e principi favorevoli a una progressiva fascistizzazione della società. Giusto. Ma, a maggior ragione, non è con gli slogan e la retorica (che appaiono spesso più una cortina fumogena frutto di boutade identitarie e calcoli elettorali) che si può contrastare con efficacia questo rischio. Da anni, per non dire da decenni, il mainstream informativo, certamente non solo televisivo, è appiattito su una narrazione revisionista, questa sì pericolosa. Perché minacciando la nostra memoria storica, rischia di cancellare ogni differenza tra ciò che è bene e ciò che è male (per la democrazia, ovviamente). Ed è su questo che bisognerebbe intervenire.

La disattenzione e il deficit politico abbassano le difese immunitarie della democrazia

E invece, sul revisionismo, tranne poche voci isolate (si potrebbe citare, per tutti, il rettore Tomaso Montanari, che con i suoi interventi ha cercato, per esempio, di richiamare l’attenzione sull’ambiguità, per usare un eufemismo, della legge del ricordo delle Foibe, venendo a più riprese bacchettato da Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere della Sera, senza, peraltro, che nessuna forza politica, o altra personalità, progressista fosse intervenuta in suo sostegno), la sinistra, in senso lato, non sembra sufficientemente attenta. Ciò è ancor più grave, considerando che, dopo tutto, proprio al nostro Paese spetta il triste primato di aver inventato il fascismo (non per caso Gobetti lo definiva come l’«autobiografia della nazione»), e cancellare la memoria di questa responsabilità non fa che favorire il rafforzamento di quella sorta di fascismo endemico, quasi antropologico, mai sopito. È qui che si misura la capacità di una sinistra che voglia davvero contrastare questo rischio con lungimiranza e concretezza e non con slogan e facili allarmismi. Ancora nel lontano 2017, Piero Ignazi, su Repubblica, commentando alcuni episodi di violenza neofascista di quei giorni (compreso un tentativo di occupazione della stessa redazione romana del giornale) sottolineava come quei rigurgiti fossero sostenuti non solo da un classico mix di nostalgismo e, appunto, neofascismo, ma anche dalla capacità di una parte non secondaria di questo stesso neofascismo (vedi i casi Forza Nuova o CasaPound) di penetrare i varchi della rete civile con esperienze comunitarie e visioni politiche alternative. Tutto questo, era sempre Ignazi a rimarcarlo, grazie anche a una sorta di distrazione/disattenzione dell’opinione pubblica e di deficit della politica, un deficit condito da qualche indulgenza di troppo e da una retorica antifascista che, per Ignazi, hanno abbassato le difese immunitarie e lasciato campo libero ai cultori del totalitarismo.

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
L’assalto neofascista alla Cgil di Roma, il 9 ottobre 2021.

L’anti-capitalismo di destra e le armi spuntate della sinistra

Se oltre allo scarso contrasto alle minacce portate dal revisionismo storico, aggiungiamo l’altro grande ambito, quello economico, ci rendiamo conto di quanto la sinistra fatichi a contrastare l’avanzata della destra, peraltro su un tema che dovrebbe appartenerle intimamente, quello dell’anticapitalismo. Perché non c’è dubbio che tra i punti di forza della destra radicale vi sia anche la rielaborazione e la proposta di ricette socio-economiche che, volendo sintetizzare, si potrebbero definire come “anticapitalismo di destra”; cifra (peraltro mutuata dalla maggior parte dei movimenti fascisti sorti un po’ in tutta Europa tra le due guerre) che accomuna pressoché tutte le espressioni del radicalismo di destra europee, guarda caso nei Paesi, Ungheria e Polonia su tutti, lontani mille miglia dalla tradizione liberista e capitalista per esempio angloamericana e tedesca. E che si pone come componente tra le più pregnanti del modello populista. Ovvio che una sinistra, come quella italiana, ma non solo, da decenni schierata su posizioni persino turbo-capitaliste e globaliste si ritrovi con poche armi spuntate nel contrapporsi a un fascismo 2.0 che invece solletica le pulsioni appunto più populiste, identitarie, sovraniste (con tutto il corollario xenofobo, omofobo, islamofobo e chi più ne ha più ne metta).

Giorgia Meloni e Viktor Orban, i motivi di un allontanamento
Selfie tra Giorgia Meloni e Viktor Orban.

Come evitare la «defascistizzazione retroattiva del fascismo»

Una sinistra davvero efficace, insomma, dovrebbe contrastare l’avanzata di questa ondata reazionaria occupando, con le idee e le proposte, gli spazi che ancora esistono, anche ripensando, vedi appunto il caso dell’anti-capitalismo, le proprie posizioni. Ma senza entrare nell’ambito dei programmi politici, e rimanendo in quello culturale, faccio un solo, ultimo esempio: lo scorso anno, Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della Sera e divulgatore tra i più letti e conosciuti, ha pubblicato Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo, un libro coraggioso, che demolisce tutti i luoghi comuni sul fascismo e sul suo duce, mostrandoci Mussolini per quel che è stato, ovvero un dittatore crudele e criminale, che si è macchiato di terribili crimini contro l’umanità. Oltreché coraggioso, il libro di Cazzullo è anche importante, perché, forse per la prima volta dopo Giorgio Bocca, non uno storico (gli storici restano purtroppo confinati nella ristretta cerchia accademica), ma un popolare divulgatore si è finalmente contrapposto a una lunga e affermata tradizione che, dall’immediato Dopoguerra a oggi, ha prodotto, grazie all’impegno di giornalisti altrettanto popolari come Indro Montanelli, Mario Cervi, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Giordano Bruno Guerri, e fino al caso limite di Gianpaolo Pansa, una pubblicistica a dir poco edulcorata e autoassolutoria sul fascismo, concorrendo a quella «defascistizzazione retroattiva del fascismo» (copyright dello storico Emilio Gentile) che inevitabilmente ha portato, per riprendere il termine, a un abbassamento delle difese immunitarie.

Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici

Silvio Berlusconi è morto. Si dirà che con lui è morta un’epoca, come a voler dimenticare le tante ombre che lo hanno accompagnato in questi suoi 86 anni di transito terrestre, per dirla col maestro Battiato. Quel che è certo che almeno per gli anni nei quali il suo essere sul pianeta Terra ha coinciso anche con l’essere un leader politico, diciamo gli ultimi 30 anni, Silvio Berlusconi non è stato solo un tycoon visionario baciato dal plauso del pubblico votante – lui che si era già tolti parecchi sfizi in ambito imprenditoriale da Fininvest a Mediaset, passando per il Milan e la Mondadori – ma anche uno dei protagonisti indiscussi della cultura popolare, oggetto di imitazioni, parodie, attacchi più o meno feroci dentro i libri, i film, le canzoni.

Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici
Silvio Berlusconi nel 2010 (Getty Images).

Berlusconi oggetto di film e imitazioni grottesche

E se pensando a personaggi anche popolarissimi come Maurizio Crozza o Sabina Guzzanti è quasi naturale vederseli nei panni del Cavaliere, i suoi tic e le sue caratteristiche rese grottesche ma al tempo stesso simpatiche, se pensando a giornalisti e scrittori come Marco Travaglio o Gianni Barbacetto vien quasi impossibile non associare i loro nomi a quelli di Berlusconi, trattato e ritrattato in così tante loro opere, se anche pensando a un maestro del cinema come Nanni Moretti, volendo anche un premio Oscar come Paolo Sorrentino, risulta difficile non correre col pensiero a opere quali Aprile e Il Caimano, nel caso del regista e attore romano, Loro, parte uno e due, nel caso del regista partenopeo, è indubbio che il mondo della canzone, specie quello militante, che un tempo si sarebbe indicato come quello dei centri sociali, abbia dedicato tante canzoni e quindi tante energie a provare a contrastare quello che appariva, a ragione, come uno strapotere non solo politico, ma anche mediatico.

Ovviamente, parlando di canzoni, c’è chi ha usato la linea retta, colpendo in maniera forse anche troppo chiara colui che riconosceva come il proprio nemico. Penso a parte della produzione di artisti quali la Banda Bassotti, con brani quali Una storia italiana, che rifaceva il verso al libricino mandato nelle case di tutti gli italiani, o i Modena City Ramblers che con la loro El Presidente riprendevano invece alla famosa campagna “un presidente operaio”, nella quale Berlusconi si presentava interpretando tutta una serie di lavori umili, che mai aveva praticato in vita sua.

La critica poetica di Silvestri e Battiato

E chi invece, penso proprio al Daniele Silvestri del brano Il mio nemico, o al Franco Battiato di Inneres Auge, ha scelto la via della poesia, tratteggiando un uomo di potere. L’incipit del brano del maestro siciliano è in questo da antologia con quel «Uno dice, che male c’è a organizzare feste private con belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti, e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti», andando a colpire altrettanto a fondo, seppur richiedendo all’ascoltatore un minimo sforzo interpretativo.

Devi andartene, l’invito di Paola Turci poi convolata a nozze con l’ex del Cav Pascale

La lista continua con AAA Cercasi di Carmen Consoli, che parla di un 80enne miliardario affascinante che cerca cagne di strada per offrire loro un’opportunità di vita, sorta di metafora neanche troppo metaforica di quanto per anni si è imputato a Berlusconi, dal bunga bunga in poi e Devi andartene di Paola Turci, ironicamente poi convolata a nozze con l’ex di Berlusconi Francesca Pascale, nella quale si parla di un satrapo sempre indaffarato tra donnine e lusso. Passando per brani più tipicamente figli dei nostri tempi, come Swag Berlusconi del guascone Bello Figo, nel quale il rapper di Pasta con tonno si vanta di scopare parecchio perché le ragazze pensano che lui sia il presidente; Penisola che non c’è di Fedez, dove i riferimenti al Cavaliere sono diretti e troppi da essere riportati, arrivando a un vero gioiello come Legalize the premier, che vede un ispirato Caparezza, in compagnia del rasta Alborosie, ipotizzare un mondo nel quale il capo politico del centro-destra invece che legalizzare le droghe leggere legalizzi se stesso, una sorta di esplosione del fenomeno delle leggi ad personam che ha decisamente accompagnato tutta la carriera di Berlusconi, da ancora prima della sua discesa in campo fino a quando è rimasto sulla cresta dell’onda. Discorso a parte meriterebbe Il sosia di Antonello Venditti, cantautore romano che con Berlusconi ha avuto sempre un rapporto fatto di frecciatine neanche troppo velate. Nella canzone in questione, forse non conoscendo un fatto realmente avvenuto, l’autore di Roma capoccia ipotizza un premier che sia di sinistra e tifoso sfegatato dell’Inter, facendo chiaramente riferimento alla lunga storia che Berlusconi ha avuto col Milan, anche se, è noto, l’acquisto dei rossoneri da parte del tycoon è avvenuto perché non fu possibile acquistare l’Inter, squadra per la quale il Cavaliere ha sempre tifato sin da piccolo.

Caro Berlusconi di Malgioglio e Meno male che Silvio c’è di Andrea Vantini: letterine e inni

Per chiudere questa veloce carrellata, sicuramente non esaustiva – e che comunque potrebbe comprendere anche alcune delle canzoni che lo stesso Berlusconi, con un passato da cantante nelle navi da crociera e da contrabbassista nella stessa orchestrina nella quale suonava anche il suo antico sodale Fedele Confalonieri, recentemente autore per Michele Apicella quando ormai da tempo era sceso in campo – non si possono non citare brani come Caro Berlusconi, a firma Cristiano Malgioglio, il quale, riprendendo una sua vecchia canzone degli Anni 80, Caro direttore, scrive una lettera immaginaria al premier, chiedendo una spintarella a colui che di spintarelle, negli anni, ne ha dispensate decisamente tante, o Meno male che Silvio c’è che Andrea Vantini scrisse per il Cav nel 2010, quando la morsa della magistratura cominciava a chiudersi intorno a lui. Brano entrato nell’immaginario comune, non certo senza alcune ironie, e divenuto inno delle convention del Popolo delle Libertà, prima, e di Forza Italia, poi, e anche di tante gag e tanti meme che hanno avuto Berlusconi come protagonista. Anche questo, in fondo, è il segno di una pervasività che nessun altro politico italiano può a oggi vantare.

 

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok

Il curioso caso di Annalisa Scarrone. Un pezzo leggero su l’artista che in questo momento sta letteralmente impazzando con la hit Mon amour, dopo aver letteralmente impazzato con Bellissima si potrebbe serenamente intitolare così. Facendo riferimento al film di David Fincher con Brad Pitt, dove si narra la storia di Benjamin Button, uomo che invece di invecchiare ringiovanisce, ribaltando il normale corso delle cose.

Ormai si muove sulle scene da diversi anni: Amici, 2010

Annalisa Scarrone, per tutti semplicemente Annalisa, per i suoi tanti fa addirittura solo Nali, è un’artista che ormai si muove sulle scene da diversi anni: il suo passaggio per la scuola e quindi il programma di Amici di Maria De Filippi, nel 2010, fu il primo momento davvero rilevante. Un secondo posto che proprio in questi giorni è tornato di attualità quando un tweet di colui che quell’edizione, la decima, la vinse, Virginio – tweet nel quale sottolineava il ruolo dell’artista, evidenziando come a suo dire l’arte non fosse solo divertimento -, è da molti stato interpretato come un attacco proprio a lei, nel mentre lì a giocare, letteralmente e letterariamente, con un brano riempipista, si sarebbe detto un tempo, come Mon Amour, solo in apparenza partito come una Bellissima in scala ridotta e invece hit capace, se possibile, di far meglio di quanto già non abbia fatto la precedente.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa detta Nali. (Getty)

Una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano

Un secondo posto che però l’ha vista subito sbocciare, la sua canzone amiciana, Diamante lei e luce lui, a imporsi come una hit, dando il via a una carriera che la vedrà faticare un po’ a trovare una propria cifra precisa, lei con una voce importante, intonata come pochissime colleghe, anche dotata di una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano, Benjamin Button, appunto, che punta su una classicità forse a lei poco contemporanea. Tanti i passaggi a Sanremo senza mai una vittoria – la posizione più alta nel 2018 -, un terzo posto più che meritato con il brano Il mondo prima di te, Annalisa è riconosciuta come talento ma alla costante ricerca di un repertorio che potesse in qualche modo farla esplodere. Una voce talmente pulita, la sua, e usata con gran stile, da farla forse risultare a tratti algida, tanto che quando nel 2015, in seguito a un altro passaggio sanremese, arriva l’album Se avessi un cuore, qualcuno ha pensato si trattasse di una una prima persona singolare, non di una seconda.

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Laurea in Fisica per poter poi provare a fare i conti con la musica

Poi la vita tende a dimostrarci sempre come le cose, a volte, arrivino quasi per caso, quando meno te lo aspetti, e lei che aveva esordito anche incidendo una versione strepitosa di Mi sei scoppiata dentro il cuore di Mina, classica quando sarebbe potuta assolutamente essere sbarazzina, quella laurea in Fisica ottenuta per poter poi provare a fare i conti con la musica a tenerla un po’ legata, ecco che quella famosa cifra comincia a farsi più nitida, grazie a un alleggerimento della stiva, direbbero dalle parti in cui è nata, Savona, o in una qualsiasi città di mare. Conscia di non dover necessariamente dimostrare sempre e comunque chi è e cosa sa fare, infatti, Annalisa ha cominciato a ringiovanirsi, iniziando a collaborare su canzoni in apparenza troppo leggere, in realtà semplicemente ottime per intrattenere – la musica è anche questo, mica solo esistenzialismo spinto -, e facendolo sempre come una spada.

Il brano della svolta leggera, Avocado toast

Ecco quindi i duetti con Benji e Fede, Tutto per una ragione, ecco quello che oggi potremmo leggere come il suo brano della svolta, Avocado toast, il primo di una serie di canzoni atte a alleggerirla, appunto, e soprattutto a mostrarcela per quello che è, una giovane donna che vive nel mondo di oggi, ecco altre collaborazioni, come quelle con Mr Rain, con J-Ax, rispettivamente con Un domani, a nome suo, e Supercalifragili, del rapper milanese, ecco Tropicana, tormentone dell’estate 2022 con i Boomdabash, giusto il tempo di arrivare in autunno e pubblicare quella Bellissima che ancora oggi imperversa su Spotify e sui social.

L’album Nuda ha indicato una presa di coscienza

Chiaramente questa è una carrellata veloce, perché fossimo andati con calma avremmo dovuto specificare come l’album Nuda, di settembre 2020, abbia segnato davvero un passo importante nella sua carriera, e come il tutto sia passato attraverso un serissimo lavoro di pacificazione col suo corpo. Nuda è un titolo metaforico, spero non serva dirlo, ma il vederla nuda in copertina – lei che ha a lungo tenuto il suo corpo nascosto, come se la sua bellezza fosse un problema da gestire, o qualcosa da non sbandierare per non passare per chi cerca scorciatoie, in barba a quanto il pop internazionale femminile ha nel mentre fatto – in qualche modo ha indicato una presa di coscienza, un volersi spogliare, anche qui metaforicamente, di una serie di sovrastrutture che in qualche modo l’avevano tenuta ferma fino a quel momento.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa. (Getty)

Annalisa non è stata presa in ostaggio da TikTok

E come spesso capita, quando decidi di prendere le cose un po’ più alla leggera, ecco che le cose hanno iniziato a farsi davvero interessanti, perché il ringiovanimento di Annalisa – Bellissima, prima, e Mon Amour, ora, lo dimostrano – ha coinciso con un preciso momento storico della musica contemporanea, quello in cui la Rete ha definitivamente preso il posto dei supporti fisici, stabilendo, era già successo a tutti i passaggi nodali della storia della discografia, altri istante e altri canoni. Ora, leggo quanto ha detto Gino Castaldo col solito ritardo, lui che per altro è stato, organico al sistema quale è, parte di questa deriva: ci si accorge che la musica è diventata ostaggio di TikTok, e si usa proprio le ultime due hit di Annalisa, seppur specificandone il talento, come esempio e monito per le prossime generazioni, ma di fatto Annalisa mi sembra piuttosto l’unica, a oggi, o una delle poche, in Italia, ad aver capito come funziona la contemporaneità e averla forzata per fare quel che voleva, non viceversa.

Canzoni pensate per i contesti social e con riferimenti Anni 80-90

Mi spiego: se inizialmente la musica era stata composta per essere eseguita dal vivo e le prime incisioni con quello avevano dovuto fare i conti, salvo poi diventare primarie per la composizione, lì a ragionare su quanto durasse un lato di un long playing, prima, e un cd, poi, solo in un secondo momento a provare a replicare dal vivo quanto si era composto per essere inciso e veicolato, non viceversa, oggi è lo streaming a farla da padrona. Quindi si scrivono canzoni che stiano in un tempo assai basso, che non tocchino frequenze troppo alte o troppo basse, assenti o distorte sui device, e che quindi ruotino giocoforza su un numero limitato di possibilità armoniche e quindi melodiche, chi dice il contrario mente. TikTok, se possibile, ha reso il tutto ancora più estremo, riducendo a pochi secondi la replicabilità di un brano, quindi ritornelli veloci e che arrivino subito, entro i 40 secondi massimo, qualche gesto da ripetere nei video a beneficio di chi poi viralizza. In questo conteso arrivano Bellissima e Mon Amour di Annalisa. Canzoni sì pensate per funzionare in quei contesti, ma in realtà costruite facendo riferimento a un immaginario musicale che è quello dei tardi Anni 80, più che altro Anni 90, il medesimo a cui guardano artiste quali Dua Lipa.

Il pop può anche essere veicolo di girl empowerment

Se però un certo passatismo in ambito, Dio mi perdoni, rock ha fatto tanto esaltare firme come Gino Castaldo – parlo dei Maneskin -, sembra che in questo caso quel che rimane nel pettinino per le lendini con cui il collega ha provato a passare le hit di Annalisa sia solo quello che passa nei balletti del social cinese, come se il pop dovesse necessariamente ambizioni colte (parlo di cultura alta) e come se, piuttosto, l’intrattenimento fosse sempre da guardare con sospetto. Il tutto mentre legittimamente impazzano Paola e Chiara con Furore e mentre Elodie annuncia un sold out al Forum. Il pop, specie quello a firma di artiste donne, può essere veicolo di un girl empowerment che evidentemente per questioni anagrafiche Castaldo non coglie, mentre siamo arrivati alla liberazione di Annalisa, che letteralmente si è ringiovanita smettendo di aderire a una idea di chanteuse decisamente passatista, giocando sul e con il suo corpo che fino a ieri nascondeva, il tutto mentre crea brani destinati a farci ballare anche per tutta l’estate, che sia per i 15 secondi di un video virale su TikTok o più anticamente su una spiaggia.

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L’essere popolari o popolani non è più un’onta

Il gioco delle contrapposizioni tra alto e basso, in questo caso, non è utile, né necessario, perché altri sono gli spazi che chi fa musica di approfondimento e d’autore giustamente insegue, non certo perché il proprio posto è “rubato” da brani di tale guisa. Si dovrebbe, è quel che ha provato a fare Tosca sui social, finendo a sua volta sommersa da hater (oggi sembra funzionare solo così), provare a ipotizzare un mondo in cui c’è spazio per tutta la musica, e chi si occupa di critica, come chi scrive, ben lo sa e a lungo si è battuto per aprire nuovi spazi, non certo per evocare l’abbattimento, più o meno figurato, di chi porta avanti altri discorsi. Il pop perfetto di una Lady Gaga o di una Dua Lipa fa spesso balzare sulla sedia la critica anche nostrana, incapace magari di cogliere appieno il senso di una rilettura attualizzata di un passato che vedeva troppo spesso il pop relegato quasi in uno sgabuzzino, qualcosa di cui vergognarsi, come se l’essere popolari o popolani fosse un’onta. Ben venga allora un pop italiano ambizioso, ancor più se portato avanti anche da noi da donne fiere e consce. Annalisa è bellissima e bravissima.

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti

Secondo una mitologica statistica in Italia si pubblicano circa 70 mila libri l’anno, otto ogni ora per 365 giorni. Ciò nonostante, un recente sondaggio promosso da Bookseller racconta che più della metà degli autori (54 per cento) ammettono come la pubblicazione del libro d’esordio abbia influito negativamente sulla loro salute mentale. Infine lo scorso inverno Repubblica dedicò la copertina di un numero de Il Venerdì al precariato imperante del lavoro intellettuale, in occasione del centenario dalla nascita «del più precario di tutti, Luciano Bianciardi». Questo in sintesi il panorama del mondo culturale italiano che comprende editori, critici e naturalmente scrittori, seduti allo stesso tavolo e intenti a spartirsi la medesima torta.

Nonostante tutto, il mercato del libro tiene

Nonostante la situazione all’apparenza sembri più da psicanalisi che altro, il mercato del libro continua a crescere o per lo meno a tenere, sia in Europa, dove il settore vale 33 miliardi di euro (il 60 per cento del mercato globale), sia in Italia dove nel 2022 ha toccato i 3,5 miliardi. O perlomeno così dicono i dati dello studio dell’Associazione Italiana Editori (Aie), in collaborazione con Nielsen BookData smentendo il cliché che in Italia «tutti vogliono scrivere ma nessuno legge». Con queste cifre i libri qualcuno dovrà pur comprarli. Ma come funziona in Italia il mondo culturale? Tre testi arrivati da poco sugli scaffali delle librerie lo raccontano concentrandosi sulla storia dell’editoria italiana, sulla genesi della casa editrice più cool in circolazione, e il terzo sondando luci e ombre del premio letterario più importante d’Italia, lo Strega.

Bianciardi e l'arte di diventare intellettuale senza leggere
Luciano Bianciardi.

Alla scoperta della Storia confidenziale dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, per gli amici Gianni, per tutti gli altri semplicemente “il professore”, è stato per molto tempo l’uomo più potente, il Darth Vader, dell’editoria italiana. Per più di 10 anni a capo della Mondadori sotto il suo dominio sono stati scoperti autori come Roberto Saviano, Paolo Giordano, Antonio Pennacchi, Salman Rushdie, Dan Brown, Alessandro Piperno e Alessandro D’Avenia. Tanto per citarne alcuni. In Storia confidenziale dell’editoria italiana, edito da Marsilio, Ferrari racconta le avventure umane e culturali degli uomini e delle donne che si sono occupati di scegliere come, quando e quali libri pubblicare, e ricostruisce capitoli di storia editoriale spiegandoci come sono nate, morte e come sono state resuscitate le case editrici, o come, talvolta, si sono divorate tra loro. Seguiremo così le storie dei due grandi “fratelli” dell’editoria italiana, Arnaldo Mondadori e Angelo Rizzoli, nati entrambi poverissimi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e diventati due dei personaggi più importanti del panorama culturale del nostro Paese. Ci appassioneremo alle gesta del 20enne Giulio Einaudi che, prima dei tipi di Adelphi, diventò il simbolo di una certa letteratura di qualità e il punto di riferimento per un certo tipo di lettori. Seguiremo il 30enne Valentino Bompiani, lettore colto e curioso, ci immergeremo nel carattere tempestoso di Livio Garzanti e tiferemo per il progetto utopistico dell’editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli. Parteciperemo ad aste selvagge a fiere librarie e a dispute legali. «Il lavoro editoriale è un miraggio tremolante», scrive Ferrari, «l’editoria è nella sua essenza un fatto commerciale, comprare e vendere, ma di una specie superiore di commercio».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari, Marsilio.

Le origini di Adelphi e la seduzione del libro

Oltre che una casa editrice Adelphi è un brand, una filosofia in cui da tempo si riconoscono generazioni di lettori che hanno trasformato la creatura di Bobi Bazlen e Roberto Calasso quasi in una religione da venerare. La storia è narrata magistralmente fin dalle origini nel volume intitolato semplicemente Adelphi, scritto da Anna Ferrando ed edito da Carocci. I precetti sono validi ancora oggi: i libri devono essere innanzitutto belli fisicamente, seduttivi, perché in fondo sono oggetti materiali, non puri spiriti. Da qui le copertine color pastello, la grafica ricercata e la trasformazione del prodotto in una sorta di “limited edition” che si fa feticcio, oggetto di culto. Instagrammabili prima di Instagram, sono diventati, come scrive Andrea Minuz sul Foglio, «i Prada dei libri». Soprattutto grazie a Calasso. Il lavoro di Ferrando tuttavia risulta essere particolarmente interessante perché narra l’epopea adelphiana prima di Calasso, puntando la luce soprattutto su Luciano Foà e Bobi Bazlen: «Faremo solo i libri che ci piacciono». Anche oggi, che Calasso Bazlen e Foà non ci sono più, i principi di Adelphi sono rimasti immutati insieme al suo successo. Solo i tipi di Via S. Giovanni sul Muro possono mandare un fisico come Carlo Rovelli in testa alle classifiche di vendita per settimane, valorizzare autori come Emmanuel Carrère o rendere immortali personaggi sconosciuti come Bruce Chatwin o dimenticati come lo stesso Geoges Simenon. D’altronde, per chi aveva sfidato l’opinione pubblica iniziando la propria avventura pubblicando l’opera omnia di Nietzsche, calza a pennello la definizione che proprio Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana sintetizza perfettamente l’intero spirito della casa editrice milanese: «La bussola adelphiana si sta trasformando nella bacchetta del rabdomante».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Adelphi, di Anna Ferrando (Carocci).

Caccia allo Strega, anatomia di un premio letterario 

Istituito a Roma nel 1947 dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del Liquore Strega da cui prende il nome, il Premio Strega è unanimemente considerato il premio letterario più importante e ambito d’Italia. Capace di far decollare una carriera o di dopare sensibilmente le vendite di un titolo, sta alla letteratura come la Champions League sta al calcio. Gianluigi Simonetti, professore di letteratura contemporanea e critico letterario del Sole 24 Ore, nel suo Caccia allo Strega, sposta lo sguardo oltre le dinamiche elettorali e il marketing letterario concentrandosi su un aspetto decisivo: come sono fatti i libri vincitori o selezionati per la celeberrima cinquina? Perché il libro perfetto è stato M di Antonio Scurati? Quali sono i motivi che hanno portato al successo Resistere non serve a niente di Walter Siti? Come fa un’esordiente a vincere Strega e Campiello in un colpo solo e vendere un milione di copie nel suo primo anno di pubblicazione come ha fatto Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi? Esiste veramente una mafia delle case editrici? In cosa lo Strega si differenzia dall’altro prestigioso premio italiano, il Campiello? A tutte queste domande risponde il lavoro di Simonetti. Pur essendo un testo che sembra dedicato solamente agli addetti ai lavori è in grado di raccontare in maniera particolarmente efficace come si è evoluta la storia sociologica del clima culturale italiano.

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo).

LEGGI ANCHE: Giangiacomo Feltrinelli e Alberto Mondadori, l’avventura dell’editoria italiana

Nella società iper veloce anche una hit dura quanto un meme

La SPA – no, non quelle dove andiamo a rilassarci sbocconcellando sedani e tisane avvolti da accapatoi immacolati tra una sauna e un massaggio col sale – è la Sindrome da Pensiero Accelerato. Qualcosa di molto vicino alla cristallizzazione dell’oggi, quell’oggi in cui siamo talmente sommersi da continui input, spesso virtuali, frammentati, iperveloci, continui, da rimanere come intossicati dalle troppe informazioni, sul punto di entrare in overdrive e collassare, psicoticamente. Più in concreto la SPA è quella condizione per la quale possiamo passare qualche minuto, pochi, a leggere un articolo, una pagina di libro, a parlare distrattamente con qualcuno, a guardare una puntata di una serie tv, senza però trattenere nessun tipo di informazioni, tabula rasa, o per dirla coi CSI, tabula rasa elettrificata. Questo ovviamente nei casi più leggeri, perché la SPA è una patologia, quindi gli effetti sul nostro corpo, meglio sulla nostra mente, possono essere anche gravi, dagli attacchi di panico al disturbo dell’attenzione, passando per i burnout, altra caratteristica saliente dei nostri tempi, via via fino a disturbi cardiaci e veri e propri attacchi psicotici.

Il cretino giovane, che non ha paura di risultare idiota su TikTok
L’app TikTok (Getty)

Dai 15 minuti di Andy Warhol ai 15 secondo di un reel

Lasciando però da parte l’ambito sanitario, che non ci compete, è evidente che una certa accelerazione della comunicazione sia tratto saliente di questi malsani tempi. Niente a che vedere con la fretta che un tempo associavamo, quasi ingenuamente, a chi viveva nelle città industriali, specie quelle del Nord, contrapposta a una lentezza quasi marqueziana, tipica dei luoghi che nella vulgata sono associati al viversi la vita come viene. Piuttosto la vaporizzazione dei contenuti, estremizzazione della realtà liquida ipotizzata o fermata su carta da Bauman, le informazioni che si affastellano una sull’altra, disordinatamente, riempiendo velocemente la memoria, non solo quella digitale, e rendendo di conseguenza impossibili l’utilizzo di molte applicazioni, mi si passi la metafora. Siccome però viviamo in questi tempi qui – non dentro un romanzo di fantascienza, ma in una perenne connessione, come ipotizzato dai cattivi ragazzi del cyberpunk (cattivi ragazzi si fa per dire, William Gibson è un anziano signore di 75 anni) e nessuno vive su Marte: non siamo in guerra con gli alieni né i robot sono sul punto di soppiantarci dal dominio del pianeta Terra (bè, sì, forse questo sì, credo a giorni arriverà un nuovo Asimov a vergare le tre leggi dell’Intelligenza artificiale) – continuiamo a stare pragmaticamente coi piedi per terra. Questa frammentazione iperveloce la possiamo riscontrare non nel vivere fisicamente tutta una vita in poche settimane, quanto piuttosto in un processo di esposizione sotto i riflettori e relativa scomparsa che ha trasformato i famosi 15 minuti di andywarholiana memoria nei 15 secondi scarsi di un reel.

Damiano David e Giorgia Soleri si sono lasciati: il leader dei Maneskin ufficializza la rottura dopo un video. In una clip mostrato il cantante che bacia un'altra
La story di Damiano (Instagram)

Da Damiano che limona a Luis Sal fino al dito medio di Arisa: la trottola social-mediatica

Prendiamo i trending topic, un tempo oggetto di discussioni per giorni, a volte anche settimane. Oggi si susseguono alla velocità della luce, vecchio retaggio di un linguaggio che appunto a una fantascienza quasi verniana fa riferimento, spesso senza lasciare traccia dietro di sé, alla faccia della lunga memoria della Rete, quella per cui tutto tornerebbe a galla con una certa celerità. Succede quindi, ma magari è un caso limite, che un breve video nel quale Damiano David dei Maneskin limona con una tipa, tale Martina Taglienti, professione modella, non la sua Giorgia Soleri, scateni l’inferno di voci sulla fine della relazione tra i due, voci che lo stesso Damiano conferma, da una parte prendendosi colpe per aver incautamente spoilerato la notizia che i due avrebbero dovuto annunciare insieme, dall’altra chiedendo un rispetto e una discrezione che limonare in discoteca potrebbe non comprendere. Così Giorgia Soleri defollowa tutti i membri della band. Neanche il tempo di commentare che ecco che Luis Sal risponde alle stories con cui Fedez ci aveva, da parte sua, spiegato che fine avesse fatto il suo ex socio di Muschio Selvaggio, andando a creare il meme dei meme «Dillo alla mamma, dillo all’avvocato», scatenando a sua volta una serie di risposte del rapper di Rozzano, letteralmente seppellite da una sorta di plebiscito a favore di Luis. E via, ecco che Arisa sfancula Paola Iezzi, rea di aver cautamente risposto a esplicita domanda riguardo le uscite della prima su Giorgia Meloni, sede la conferenza stampa del Pride di Roma, una risposta assai scomposta, quella di Arisa, con tanto di dito medio finale, prontamente rinnegato dalla medesima, nel mentre divenuta ovvio oggetto a sua volta di meme e di critiche piuttosto feroci sui social. Una notizia via l’altra, senza modo di lasciare però traccia nella memoria, a meno che la memoria non sia quella cosa flebile che ci permette di fare di quel “dillo alla mamma…” o quel “dito medio” qualcosa di facilmente decodificabile, scorciatoia ulteriore verso una frammentazione che ha sempre più bisogno di essere stringati, veloci, sintetici.

Fedez svela i motivi della rottura con Luis Sal: «Tutto nato a Sanremo». L'addio dell'influencer spiegato su Youtube dal rapper
Luis Sal e Fedez (Getty)

Anche in musica si brucia velocemente per dirla alla Kurt Cobain

Tutto questo, atterrando sul pianeta musica, si traduce in un vero bombardamento di brani, tipo notte di Dresda, quasi sempre collaborazioni tra più artisti, spesso lì a scambiarsi ruoli di brano in brano con la certezza di rimanere impigliati nella memoria dell’ascoltatore, quindi nelle classifiche di vendita, ci si passi un termine decisamente fuori tempo massimo, tanto quanto il termine discografia, lo spazio di un meme, poco più. E lo spazio di un meme, poco più, sembra oggi il tempo medio di durata delle carriere di artisti, Dio ci perdoni, che danno il senso all’immagine del “bruciare velocemente” evocata da Kurt Cobain nella sua lettera d’addio, anno del Signore 1994, anche se in questo caso non è certo la volontà degli artisti in questione a rendere possibile il tutto. Pensiamo, che so?, a gente come Benji e Fede, che a lungo hanno dominato le classifiche coi loro singolini leggeri leggeri e oggi sono praticamente relegati al ruolo di comparse. E il resto che scorre velocemente in un piano inclinato che prevede un cestino dell’immondizia alla fine, come certi scivoli per i panni sporchi degli hotel nei quali personaggi in fuga trovano scampo dai propri inseguitori. Volendo lasciare da parte pensieri anche sensati come quello che vuole che ci si faccia molto male se quando si cade lo si fa dall’alto, indicando nel “sei un talento” o nei “dove eri nascosto fino a oggi” tipici dei complimenti che si ascoltano dai giudici dei talent una qualche aggravante, illudere è sempre qualcosa di abietto, resta che la carriera media di un artista, pregate per la mia anima, oggi dura davvero il tempo che un tempo si concedeva a un pari artista per capire che nome usare nel primo album, spesso anche meno. Certo, ascoltando le musiche che detti artisti producono si potrebbe chiosare che non tutti i mali vengono per nuocere; come diceva un vecchio inciso di quando non era ancora stato codificato il politicamente corretto, era meglio ammazzarli da piccoli, ma in questa continua accelerazione della realtà anche la colonna sonora sembra destinata a durare pochi secondi, giusto il tempo di arrivare a un inutile ritornello per scomparire dai radar, breve ma intenso, diremmo in un meme. È proprio vero, mai come oggi in cui siamo tutti sempre connessi, connettere sembra essere diventato un privilegio per pochi.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso

Il potenziale dualismo nel consiglio di amministrazione della Rai con la presidente Marinella Soldi si profila all’orizzonte. Ma dalle parti di Viale Mazzini non è un mistero che Simona Agnes, membro dell’organo di amministrazione in quota Forza Italia, ambisca a prendere il posto della numero uno nominata da Mario Draghi in quota Partito democratico (e molto ben inserita nella filiera Paolo GentiloniMatteo Renzi). Tra l’altro, qualora Soldi dovesse rassegnare anzitempo le dimissioni, l’interim potrebbe ricadere sul consigliere più anziano, che appunto è Agnes.

I “draghiani senza Draghi” continuano a comandarsela nella tivù pubblica

La giornalista e manager, classe 1967, esperta di marketing e relazioni esterne, con competenze poliedriche che spaziano dal turismo fino alla cultura e alla sanità, è protetta e promossa dal sempiterno Gianni Letta, in nome degli interessi di Forza Italia in Rai naturalmente, ma anche – con sguardo più ampio – a vantaggio di quel blocco “Ursula” che va da Fi fino ai dem non schleiniani: i cosiddetti “draghiani senza Draghi” che continuano a comandarsela nella tivù pubblica, a dispetto della nuova stagione meloniana. In quest’ottica, Soldi e Agnes apparterrebbero persino allo stesso milieu, ma poi, si sa, le rivalità si costruiscono pure sulle dinamiche personali e sulla tattica di breve respiro, come gli ultimi voti in cda hanno dimostrato.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Simona Agnes.

La rappresentanza di genere? Questa volta ha chiuso un occhio

E così, mentre Soldi si mette (un po’) di traverso, Agnes esulta per il nuovo corso: «Le nomine che abbiamo approvato delineano una Rai equilibrata, dinamica e pluralista». Certo, poi magari c’è qualche problemino circa la rappresentanza di genere, visto che su 21 direzioni soltanto sei sono guidate da donne. E fa specie che la consigliera in quota azzurra non abbia alzato un sopracciglio quando invece in una vecchia intervista sul Premio internazionale di giornalismo intitolato a Biagio Agnes, il suo illustre papà, ebbe a dire: «Purtroppo ogni anno le donne sono in minoranza e dobbiamo ricordarci che ci sono tante brave donne giornaliste». Eh sì, «dobbiamo ricordarci»: peccato le amnesie nei momenti cruciali.

Il padre Biagio ex direttore generale a Viale Mazzini 

Nata a Roma, ma di origini paterne irpine, Simona ha studiato legge alla Luiss, però ha la Rai nel dna. Biagio fu direttore generale a Viale Mazzini negli Anni 80, oltre che fondatore e direttore del Tg3. Erano i fasti (effimeri) del pentapartito e lui scalò le gerarchie della tivù di Stato mentre il suo amico e conterraneo Ciriaco De Mita prendeva il potere nella Democrazia cristiana. Peraltro il fratello Mario, lo zio di Simona, è stato presidente nazionale dell’Azione cattolica e direttore dell’Osservatore romano, questo per raccontare il background della figlia d’arte, cui tocca adesso l’amorevole e gelosa custodia della memoria del padre attraverso la guida della fondazione e l’organizzazione del premio a lui dedicati. Ma anche grazie alla reviviscenza nei palinsesti di un programma storico della Rai, inventato da papà Biagio e dedicato ai temi della sanità, come Check-up, che peraltro oggi vanta una singolare convenzione con la sola Regione Campania (con tanto di polemiche a Napoli per i 600 mila euro sborsati a Rai Com da Scabec, la in house che si occupa di cultura, per valorizzare la dieta mediterranea).

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Biagio Agnes.

Piaggio, Telecom e una carriera nella comunicazione

Quasi fosse una predestinata, Simona si è sempre mossa nel settore della comunicazione, delle pr e delle relazioni istituzionali ad alti livelli. Piaggio e Telecom le esperienze aziendali preminenti riportate in curriculum prima di mamma Rai. Ma Agnes ha costantemente sposato con sorvegliato savoir-faire le iniziative benefiche alla frivolezza del jet set nostrano, le campagne medico-scientifiche ai velluti della miglior hotellerie, le riflessioni impegnate contro la mafia alle terrazze patinate del generone romano. Perché, in fondo, da Telethon ai Vanzina è un attimo.

Sensibile agli interessi di chi fa concorrenza alla Rai…

Componente, tra l’altro, dei cda dell’Istituto Treccani e della Treccani Scuola, Agnes è donna di comunicazione ma non ama molto i social. Non ha un profilo Facebook, mentre il suo account Twitter è una zattera abbandonata alle correnti, visto che l’ultimo aggiornamento risale al 2018. Va appena meglio su Instagram, con una pagina privata che conta meno di 700 follower. Del padre dice che egli «difese la tivù pubblica». Una missione che appare oggi difficile da perseguire per chi dentro Viale Mazzini è in qualche modo sensibile agli interessi del primo editore televisivo in concorrenza con la Rai. Ma tant’è. «Tutta l’azienda aspetta da noi risposte importanti», dice adesso Simona. Vedremo, però se il buongiorno si vede dal mattino…

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di MoscaC’è chi spiega la guerra in Ucraina, dopo un breve cenno all’aggressione russa, anche come il frutto avvelenato della Nato e di Wall Street. Sarebbe meglio usare con più dimestichezza la Storia. Si scoprirebbe tra l’altro che l’antiamericanismo degli europei occidentali precede di gran lunga Nato e Wall Street ed è vecchio almeno di due secoli, e in realtà più vecchio ancora. È diverso da quello degli europei orientali che avendo sempre avuto il problema russo sono in genere meno anti-americani. È un sentimento diffuso e non di rado profondo, e fa il paio con l’antico ma persistente antieuropeismo di molti americani, basato una volta sul principio che l’Europa fosse tiranna, altezzosa con i suoi nobili, antidemocratica, papalina, oppure folle con gli eccessi rivoluzionari, mentre oggi ci guarda da tempo come terra déclassée, decaduta, ricca ma imbelle.

Le origini dell’antiamericanismo europeo: da Hegel al nazifascismo fino ai timori britannici 

Per l’antiamericanismo si può risalire come data di nascita, con approssimazione, agli Anni 20 dell’800, quando Georg W.H. Hegel elaborava a Berlino le sue Lezioni sulla filosofia della Storia, da cui emergeva tra l’altro un’immagine degli Stati Uniti destinati a un notevole ma imprecisato futuro, afflitti nel frattempo da un sistema sociopolitico e culturale “immaturo” e “caotico”, oltre che da una dominante ignoranza avendo rotto molti ponti con quel fulcro di civiltà che era l’Europa. Molti europei ripeteranno tutto ciò per l’intero l’800, anche dopo la Prima Guerra mondiale e il passaggio da Londra a New York della capitale finanziaria del globo, e lo ribadiranno con insistenza ancora fino agli Anni 40, con la lettura sdegnosa che nazismo e fascismo, e non solo, avevano della “inferiore” realtà americana, asserita personalmente da Mussolini in varie occasioni e imposta all’informazione e alla letteratura nostrane. Una parte del mondo cattolico, Giuseppe Dossetti in testa, era sulla stessa linea dal 1945 in poi. E non va dimenticato il profondo antiamericanismo che ha sempre contraddistinto parte notevole della cultura francese, basti pensare a un esperto di cose americane come André Siegfried (1875-1959) che tanto ha contribuito alla lettura critica degli Usa, a vari italiani per lo più modesti conoscitori dell’altra sponda, e a molti altri. Per non parlare degli inglesi, che da fine 800 temevano il sorpasso americano, e che si interrogavano ansiosi su quando sarebbe avvenuto (sir Edward Hamilton, Segretario generale del Tesoro, nel 1906, quando il sorpasso economico era da tempo concluso), o che scoppiavano in lacrime in pubblico (sir Edward Holden, presidente della London City and Midland Bank, nel 1916) di fronte all’inaudito e insostenibile attacco della finanza americana ormai più forte di Lombard Street. Il tutto veniva sintetizzato nel 1944-45 dagli inglesi che così commentavano la problematica presenza delle truppe americane pronte a passare oltremanica a combattere Hitler: overfed, oversexed, and over here, troppo nutriti, con troppe donne, e purtroppo qui. Insomma, tra Europa e Stati Uniti non è mai stata una semplice storia d’amore.

Andrea Purgatori torna con Atlantide. Stasera 9 novembre su La7 il rapporto fra Hitler e Mussolini. Ospite Antonio Scurati, autore di M.
Adolf Hitler e Benito Mussolini (Getty Images).

Le due visioni del futuro ordine mondiale e la scelta dell’Europa occidentale di accettare l’ombrello Nato e Usa

In più si era aggiunta, nel 1917-1918  una duplice e fortemente antagonistica visione del futuro mondiale a partire da quello dell’Europa: da parte russo-sovietica l’appello della rivoluzione bolscevica universale, la Germania postbellica prima candidata auspicata; da parte americana i 14 punti del presidente Woodrow Wilson, studiati per creare in particolare in Europa un sistema collettivo di pace capace di superare le guerre del passato e impedire il declino totale del continente. Il Congresso americano alla fine negò con l’isolazionisimo la partecipazione americana al sistema (Società delle Nazioni), Wall Street però condusse molto attivamente la sua diplomazia finanziaria con l’Europa, ormai legata ai capitali americani dopo il suicidio del 1914-1918. E nel 1942 l’America tornò per raccogliere, con varie titubanze, i cocci di quella che era stata l’Europa. L’idea di un massiccio impegno postbellico in Europa richiese un anno e mezzo per maturare, da fine 1945 ai primi del 1947. Gli Stati Uniti lo fecero nel proprio interesse, per non avere una potenza ostile dominante sull’altro lato dell’Atlantico, come già avevano fatto nel 1917 entrando nel primo conflitto mondiale, contro la Germania. Ora si trattava di fronteggiare la Russia, dall’agosto 1949 potenza atomica. L’Europa occidentale accettava che la sua difesa fosse garantita, come deterrente, dagli ordigni atomici americani, oltre che dalle truppe Nato. La maggioranza degli europei ha dimostrato con il voto, per vari decenni, di accettare questo assetto. Dura da 74 anni, un tempo troppo lungo. Il caso ucraino lo ha reimposto all’attenzione senza che appaiano sul fronte dell’Europa le capacità di trarne tutte le conseguenze, e cioè una vera unione strategica e militare dei Paesi ue, in ambito Nato o parzialmente Nato all’inizio, e fino a quando l’Alleanza esisterà. Ma più Europa. Richiederebbe coraggio e lungimiranza, merci rare in un’Unione il cui Paese leader, la Germania, aveva affidato il proprio futuro energetico a due gasdotti via Baltico che partono (o partivano) dalla Russia. Decisione logica quanto a geografia ed economia, sbagliata quanto a politica e strategia, perché la Russia non è quello che ci piacerebbe fosse.

L'Ucraina, le origini dell'antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca
Woodrow Wilson e il suo Gabinetto (Getty Images).

Il dito puntato contro gli Usa che danneggiano l’Europa e la miopia su ciò che Mosca vuole davvero

Non è più possibile, da 30 anni, reclamare l’esistenza di un campo della pace, quello sovietico-russo, contro il campo della guerra, quello dei capitalisti cioè Washington e dei loro accoliti. Quel campo della pace non è mai esistito, come Ucraina conferma e come alcuni illuminati giudizi sulla neonata Urss – uno del futuro ministro degli Esteri di Weimar Walther Rathenau nel 1919, e l’altro della rivoluzionaria Rosa Luxembourg a fine 1918 – già spiegavano chiaramente. Tuttavia, sono in molti ancora oggi ad avere qualche riflesso condizionato. Anche in Italia qualche analista e commentatore di indubbia qualità si abbandona ad analisi dalle quali filtra chiaramente l’idea che a danneggiare l’Europa sono gli Stati Uniti, attenti ai propri interessi e non ai nostri. È vero, sarebbe strano il contrario, occorre vedere però fino a che punto i due interessi sono più o meno paralleli, e quando divergono, com’è naturale fra due aree geografiche così lontane e con interessi commerciali spesso concorrenti, nonostante una integrazione economica via commerci e investimenti incrociati senza confronti al mondo. Lo stesso commentatore sostiene che ormai l’Ucraina è vista diversamente da Washington perché l’obiettivo americano, la fine dei gasdotti Russia-Germania, è stato raggiunto. Non una parola sulla saggezza o meno di quel legame via Baltico, alla luce dei fatti, e sul fatto se sia un male o un bene avervi posto per ora fine. E non una parola su che cosa vuole Mosca, oltre al Donbass.

8 marzo, il discorso di Putin alle donne russe: «Avete scelto la missione più alta: difendere la patria», ha detto in un videomessaggio.
Vladimir Putin (Getty Images).

I piani segreti di Stalin per la Russia e il Vecchio continente non si discostano molto da quelli di Putin

Fino all’apertura degli archivi ex sovietici, negli Anni 90, mancava un capitolo alla storia della strategia dell’Urss per l’Europa dal 1939 in poi, quello dei documenti segreti, che spiegano ciò che Mosca voleva con Stalin. Più o meno ciò che, partendo da una posizione ben più svantaggiata poiché ha perso la Guerra fredda, vuole con Putin. Adesso almeno in parte (gli archivi non sono più da tempo facilmente accessibili) conosciamo di più e sarebbe utile la lettura ad esempio di un saggio storico di 25 pagine reperibile via Google digitando: “Vladimir O. Pechatnov, The Big Three After World War II. New Documents… Wilson Center 1995″. Dice in sostanza che Mosca pensava di emergere dal conflitto come unica potenza militare di terra in Europa, e di avere quindi, direttamente dove arrivava l’Armata Rossa, indirettamente altrove, il controllo dell’Europa occidentale, Gran Bretagna esclusa. Da altre fonti emerge la volontà di impedire qualsiasi alleanza fra due o più Paesi europei, e tantomeno un organismo multilaterale a crescente integrazione come è oggi l’Unione europea, da sempre vista con sospetto e ostilità e ritenuta ufficialmente come la Nato uno strumento della Guerra fredda. Pochi ricordano queste posizioni, e pochi in Occidente, a partire dai tedeschi e da molti italiani, sono disposti ad ascoltare che opinioni hanno gli europei dell’Est, i baltici e gli scandinavi, convinti a grande maggioranza che l’Ucraina è solo una prima mossa per vedere se l’Occidente tiene.

Si può essere anti-Usa ma non si può rinnegare la storia
Stalin (Getty Images).

L’Ue e l’intera Europa non possono sperare in eterno nella copertura Usa

Finora ha tenuto, anche se gli uccelli di malaugurio abbondano. Il tempo però dice che l’Unione europea, e l’intera Europa, non possono sperare in eterno sulla copertura strategica americana, e non possono aspettare in eterno che la Russia diventi un Paese democratico dove sia l’opinione pubblica, alla fine, attraverso libere elezioni a decidere che politica estera seguire. Se da noi molti sono stanchi dell’America, forse da sempre, molti americani applicano da tempo all’intera Europa ciò che nel 1962 l’ex Segretario di Stato Dean Acheson disse della Gran Bretagna: «Ha perso un Impero e non ha ancora ritrovato un ruolo». Joe Biden è un vecchio democratico in politica da oltre mezzo secolo e allievo diretto degli uomini che fecero il Piano Marshall e la Nato e spinsero per l’Unione europea, e si è sempre occupato di Europa. Un’altra dirigenza americana, si è visto con Donald Trump, potrebbe pensarla diversamente. Sarebbe molto miope per Washington non cercare di avere amica l’altra sponda, ma nessuno può escluderlo. Quanto all’antiamericanismo, all’antipatia per l’America, chi ce l’ha dovrebbe cercare di non confonderla con gli interessi dell’Italia e dell’Europa, e farne buon uso. In fondo era un grande amico dell’America, Alexis de Tocqueville, che già nel 1835 osservava come «gli americani trattando con gli stranieri sembrano infastiditi dalla più piccola critica e insaziabili di elogi. Insistono per averli. E se non ottengono soddisfazione, alla fine si elogiano da soli». E aggiungeva: «Si direbbe che, dubbiosi circa i propri meriti, amino vederli costantemente esibiti di fronte ai propri occhi».

Così Berlusconi ha dimostrato l’inutilità politica della satira

«Cos’ha fatto di buono Berlusconi?». Se lo chiedevano, mi pare, Adriano Celentano e Roberto Benigni in un varietà Rai di qualche decennio fa, realizzato presumibilmente durante un governo Prodi. Al termine di un bilancio tra il serio e il faceto, i due showmen salvavano un solo provvedimento del collega che dal 1994 si divideva fra la professione di barzellettiere e quella di premier: la patente a punti, introdotta nel 2003 dal gabinetto Berlusconi II. La patente a punti è rimasta l’unica, solitaria benemerenza riconosciuta al Cavaliere fino a ieri, giorno della sua morte, quando il sito Escort Advisor lo ha omaggiato ricordando un altro risultato indiscutibilmente lodevole dell’era Berlu: lo sdoganamento del termine ‘escort’ come sinonimo di prostituta. «Una parola meno offensiva e più dignitosa per le operatrici del sesso,» spiega un comunicato del sito dedicato alle recensioni delle sex-worker, sottolineando che, attraverso la rilevanza mediatica dei processi legati al bunga-bunga, Berlusconi «ha contribuito a normalizzare, anche se a modo suo, un settore ancora oggi controverso».

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L’omaggio del sito Escort advisor a Berlusconi.

Nessuno come Berlusconi è stato ridicolizzato dalla satira e nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui

La patente a punti e la promozione lessicale della prostituzione: anch’io potrei fermarmi qui, come elogio funebre. Sono fuori tempo massimo sia per il servo encomio che per il codardo oltraggio e non appartengo alla generazione allevata da Sua Emittenza con Bim Bum Bam e Paperissima. Per onestà intellettuale, però, devo riconoscere che per noi autori di satira politica nessun personaggio dell’ultimo scorcio di ‘900 ci ha ispirato e reso reattivi e produttivi più di Silvio Berlusconi. I risultati non erano sempre di qualità eccelsa, spesso era satira involgarita da un body-shaming allora entusiasticamente praticato anche da penne e matite eccellenti. Ma c’era anche parecchia roba forte e buona, che dava ai suoi autori un brivido di grandezza: ecco la vignetta definitiva, ecco la risata che lo seppellirà. Ma col passar del tempo ci sentivamo come scultori che si ritrovano a dover scalpellare una montagna anziché il solito blocco di pietra: anche se si è geni dallo scalpello mirabolante e si sgobba giorno e notte per anni e anni e anni, la montagna rimane lì, uguale. Dài delle martellate clamorose, ti sembra di staccare grossi pezzi di roccia, senti il presagio di una frana, e magari qualche cascata di ciottoli arriva davvero, dài e dài credi di avere modificato il profilo del monte, e invece no: il monte è più o meno uguale a se stesso e sempre al suo posto. Quelli cambiati siamo noi: stanchi, invecchiati, con gli scalpelli fuori uso, che guardiamo impotenti le comitive di gitanti che fotografano la montagna e la trovano carina e pittoresca, senza apprezzare né notare le scalfitture che ci sono costate anni di fatiche: le decine di soprannomi, le centinaia di caricature, le campagne al vetriolo sui suoi processi, il caparbio tiro a segno sulle sue sfrenatezze, gli sfottò ai suoi reggicoda, anche loro tutti al loro posto, avanzati in carriera o beneficati, ma sempre grati e adoranti.

Ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live

Insomma, è vero nessuno come il Cav è stato ridicolizzato dalla satira, ma è altrettanto vero che nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui, dimostrandone l’inutilità politica e dissipando l’illusione, di cui la sinistra si pasceva dai tempi di Dario Fo e del Male, che il ghigno e lo sberleffo possano davvero far paura al potere e aprire gli occhi al popolo. Quando qualcuno grida che il re è nudo e il re, anziché correre a nascondersi, sculetta e si mette in posa, il popolo ride ma alla fine passa dalla sua parte. E chi deve andare a nascondersi è quello che lo ha smascherato. Fatto sta che ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live, a mezzanotte passata, l’ora dei vampiri.

Via Silvia, spianata dall’uomo di Arcore, è ora trafficatissima

Lo sguardo più lucido e preveggente sulla fine del Caimano non è venuto dalla satira, ma dalla canzone. Precisamente da Caparezza, che nel 2011, nella strepitosa Legalize the Premier, descriveva con largo anticipo gli ultimi giorni del patriarca del centrodestra: «E se capita che un giorno starai male, male/vedrai leccaculo al tuo capezzale/darai una buona parola per farli entrare/nel tuo paradiso fiscale». Il rapper di Molfetta chiariva che il pezzo non era dedicato solo a Berlusconi, ma anche a tutti i suoi successori, cui il Cavaliere ha mostrato che una volta arrivati al potere si possono modificare le leggi a proprio uso e consumo, «perché una volta che hai asfaltato una strada ci possono passare tutti». Una strada che, all’uso dell’antica Roma, potremmo chiamare via Silvia. Aperta e spianata dall’uomo di Arcore, e ora trafficatissima.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito

Forza Italia piange la morte di Silvio Berlusconi, con sincera commozione, e non potrebbe essere altrimenti. Ma oltre al dolore umano per la scomparsa del fondatore, dovrà arrivare il momento di fare i conti per capire come potrà andare avanti il partito, prima di tutto dal punto di vista economico. I soldi sono il principale punto debole degli azzurri, soprattutto ora che il Cav non c’è. Fino a quando è stato in vita, infatti, era lui a mettere le risorse a disposizione, senza andare per il sottile. L’ex presidente del Consiglio non si è mai tirato indietro, chiedendo una mano al fratello Paolo e ai cinque figli. A Silvio nessuno diceva di no.

I 700 mila euro donati coprono la maggior parte degli introiti

Tanto per rendere l’idea, nel 2023 il supporto finanziario della famiglia Berlusconi è stato fondamentale, altrimenti il piatto piangerebbe, eccome: le tabelle delle donazioni volontarie raccontano di 700 mila euro affluiti nelle casse degli azzurri grazie agli assegni staccati nella cerchia familiare e aziendale. Il fratello Paolo ha provveduto a sottoscrivere un’elargizione liberale, una delle forme di finanziamento consentite dalla legge, di 100 mila euro il 24 febbraio. Un esempio seguito dal figlio dell’ex premier, Luigi Berlusconi, con la medesima cifra e nello stesso giorno. Così tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, tutti gli altri figli, Barbara, Eleonora, Marina e Pier Silvio, hanno donato 100 mila euro alle casse di Forza Italia, come ha fatto successivamente la Fininvest, la società più nota della famiglia. Il totale è stato, appunto, di 700 mila euro che ha praticamente coperto tre quarti degli introiti degli azzurri legati alle donazioni.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Luigi e Paolo Berlusconi, figlio e fratello di Silvio. (Getty)

Finanziamento pubblico: arriva poco dal 2 per mille

Il dato complessivo supera di poco il milione di euro, senza i Berlusconi si parlerebbe di 250 mila euro. Roba da partitino. Ma la somma derivante dalla famiglia dell’ex presidente del Consiglio, è più alta anche rispetto ai 581 mila euro arrivati grazie al 2 per mille, destinato dai contribuenti e su cui i forzisti hanno sempre dimostrato dei limiti: tra i partiti della maggioranza è quello che ottiene meno dall’ultima forma di finanziamento pubblico. Non occorre l’indovino per comprendere il peso specifico economico del supporto dato da Berlusconi alla sua creatura. In un certo senso si trattava di un atto d’amore, un gesto dovuto per un progetto che ha coltivato dal 1994, con l’eccezione della parentesi del Popolo delle libertà. Per questo ora si addensano le nubi sul futuro, sulle reali intenzioni degli eredi.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia. (Getty)

Forza Italia, debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di B

Di fatto per i figli del fondatore il partito rischia di trasformarsi in un buco nero in cui gettare risorse, senza considerare che – bilanci alla mano – Forza Italia, come soggetto giuridico, ha contratto un debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di Berlusconi. Si tratta di una questione delicata, quanto intricata, che nelle prossime settimana andrà affrontata. Ma anche se gli eredi dell’ex presidente del Consiglio non vorranno pretendere gli arretrati, dovranno decidere se hanno voglia di mettere mano alla tasca per finanziare un partito, che allo stato attuale sarà gestito da altri. E che ha prospettive di consenso non proprio esaltanti. Nell’inner circle berlusconiano giurano che la vicenda non era stata discussa, nonostante la grave malattia dell’anziano leader.

Pier Silvio Berlusconi, dopo una visita al padre, ricoverato in terapia intensiva da mercoledì, si è lasciato andare ad alcune affermazioni
Pier Silvio Berlusconi. (Getty Images)

Quanti morosi tra i parlamentari: pure Bergamini e Cannizzaro

In mezzo c’è un’altra questione, non affatto secondaria: il recupero delle cifre dei “morosi”, un’operazione che era stata avviata da qualche settimana con discreti risultati. Ogni eletto, tra Camera e Senato, è chiamato a restituire 900 euro al mese. Una pratica che però non è seguita da tutti i parlamentari. Anzi, quasi la metà non rispetta i tempi. Nell’elenco dei donatori, da inizio 2023, non si ritrovano peraltro dei nomi parlamentari in vista di Forza Italia, come i due vicepresidenti del gruppo alla Camera, Deborah Bergamini e Francesco Cannizzaro, che tuttavia in passato hanno fatto dei versamenti più sostanziosi dei 900 euro mensili. Solo che di recente c’era stato un appello per recuperare le somme, a cui non risultano risposte.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Silvio Berlusconi e Deborah Bergamini.

Chi è disposto a foraggiare un progetto ormai morente?

Stessa situazione caratterizza il vice capogruppo al Senato, Adriano Paroli, e altri colleghi azzurri a Palazzo Madama, come Claudio Fazzone (l’ultimo versamento è di 20 mila e risale all’agosto del 2022, in piena campagna elettorale), Dario Damiani, Mario Occhiuto e Daniela Ternullo. In realtà non figura nell’elenco nemmeno il capogruppo a Montecitorio, Paolo Barelli, che però ha spiegato che si tratta di un errore della registrazione delle donazioni, a cui comunque non è stato posto rimedio. Sempre a Montecitorio non sono registrate sui documenti da parte dei deputati Tommaso Calderone e nemmeno di Annarita Patriarca. Per tutti l’arretrato è minimo, sebbene moltiplicata la quota mensile per in cinque mesi si arrivi a 4.500 euro, e può essere saldato con un’unica operazione, anche se l’azione di recupero per i morosi è più vasta e coinvolge molti ex parlamentari. Ma, al netto dell’assiduità dei versamenti, c’è un punto focale: chi è davvero intenzionato a foraggiare un partito con prospettive tutt’altro che rosee? Qui torna alla mente la frase di un parlamentare pronunciata negli ultimi giorni di vita del leader. «Forza Italia è Silvio Berlusconi, Silvio Berlusconi è Forza Italia». Che significa che senza di lui non esiste nemmeno più il partito.